Un universo d’amore. L’universo nei tuoi occhi

Un universo d’amore. L’universo nei tuoi occhi

Siamo arrivati alla mia tappa.

Mentre ieri, vi abbiamo invaso con le recensioni del libro, oggi voglio mettere a confronto questa nuova lettura con quella precedente.

Trovo estremamente difficoltoso trovare un modo per metterli a confronto senza però svelarvi i punti salienti. Però, essendo due libri bellissimi, devo parlarvi assolutamente dei loro pregi!

Raccontami di un giorno perfetto: 

    – Ho letto alcuni commenti negativi sul romanzo. Un classico e giustamente, ci sta.

Il mondo è bello perchè è vario e sappiamo che non si può piacere a tutti. Quello che però mi ha un pò lasciata perplessa è stato un commento cattivo sul fatto che il libro denigra la figura dello strizzacervelli.

Il libro parla di depressione, senso di colpa, ansia e tutte quelle sensazioni cupe e pesanti che in un modo o nell’altro, ogni adolescente vive. Come tutti sappiamo, ogni ragazzino tende a tenersi tutto dentro e ad essere crudele con chi è diverso. Non è una costante ma succede molto spesso e sempre molto spesso, si sentono gli unici a soffrire.

Questo libro, ci fa capire che mai e sottolineo MAI, dobbiamo sentirci soli perché non è vero.

La figura dell’adulto viene messa in discussione perché anche nella realtà, un ragazzo giovane preferisce non affidarsi a loro. Un pensiero sbagliato ma comune.

    – Mi ha ricordato che è sempre bene vivere e affrontare ogni secondo della vita. Nel bene e nel male perché la vita, non è eterna.

Gli incidenti non sono poi così rari e spesso, sono mortali. Bisogna sempre dare il meglio perché il futuro è incerto e con la Morte, non si può patteggiare.

Però è anche vero che tutto si può superare e che anche se noi soffriamo, il mondo continua a girare ed è un nostro diritto tornare a vivere.

    – Mi ha fatto carpire che tutti indossiamo delle maschere e che dietro un sorriso, spesso si nasconde una persona che soffre. Anche la persona più popolare della scuola può sentirsi un cesso a pedali.

Incredibile ma vero.

L’universo nei tuoi occhi: 

    – Trovo che giudicare a priori una persona solo dall’aspetto fisico, sia un comportamento scorretto. Non possiamo conoscere le storie che la gente si porta dietro e c’è sempre modo e modo per consigliare qualcosa.

Libby, per quanto sia molto grossa, balla a meraviglia eppure, non basta la bravura. Dovrebbe perdere peso… perchè? Per cattiveria di chi c’è al comando.

    – Non bastano gli occhi per vedere. Essere particolari è sempre un modo per essere unici e ci sono moltissimi modi per esserlo in modo genuino.

Essere le fotocopie delle fotocopie e seguire in massa il figo del momento… beh, non lo capirò mai.

    – L’amore è cieco. Ormai questa ovvietà la diciamo un sacco di volte ma quando vediamo due personaggi tanto diversi, amarsi in una storia?

Solitamente sono sempre molto nella norma. Belli o molto carini, magri ma tonici, mascoline ma delicate, maschioni ma anche aggraziati… insomma, in un modo o nell’altro, se vestiti e/o truccati nel modo giusto, sotto ogni personaggio c’è l’adone o la dea di turno. In questo caso però, la Niven ci presenta due personaggi totalmente agli opposti e buon dio, sono così dolci che mi sono innamorata pure io.

I due libri hanno in comune tutto e nulla.
Nulla perché trattano dei temi differenti e anche il finale è assolutamente diverso l’uno dall’altro ma sono libri che fanno pensare molto e che ti aprono il cuore. Sono due storie che racchiudono il dolore ma che in modi differenti ti dicono di non fermarti e di continuare ad amare.

L'universo nei tuoi occhi di Jennifer Niven

Chiara Marchelli [INCONTRO/17]

Chiara Marchelli [INCONTRO/17]

Il passare del tempo invece di alleviare i pesi ne moltiplica gli echi

Cosa ti ha spinto a raccontare una storia familiare così difficile? 

L’ho scelta perché quando scrivo queste storie, sono generalmente cose che ci toccano. Non è una storia autobiografica però mi ha sfiorata da vicino dato che è successa a persone che mi sono molto care. 
Come spesso mi succede, se una cosa del genere rimane dentro, sedimenta e non va via ne devo fare qualcosa. 

Appena si inizia a leggere si capisce di entrare in una storia drammatica. La sospensione scandita da piccoli riti che si svuotano nel momento in cui ci si rende conto che sarebbero potuti essere delle condivisioni ma non lo sono più. È una cosa voluta?

E’ venuto scrivendo. Francamente stavo scrivendo una storia, poi questi sono sempre ragionamenti a posteriori. 
Però forse volevo mantenere una certa discrezione nei confronti di una storia del genere perché ho voluto trattarla nella misura che io ritenevo migliore per me. Nel senso che avendo molto rispetto per un dolore di questo tipo, non volendo fare facili sentimentalismi, forse uno dei punti fondamentali che ho affrontato anche attraverso la scelta del linguaggio è stato quello di conservare una distanza di modo che la storia parlasse da sé.

E’ bello come hai inserito la teoria dei giochi, come lui cerchi di giustificare il dolore basandosi su delle formule matematiche, delle formule scritte e definite.

Si, è un po’ quello che tutti noi facciamo: tentiamo di contenere tutto ciò che ci spaventa.
Questo è un uomo che parte corazzato, distrutto. Prova a vivere come gli studiosi spesso fanno: a cacciarsi dentro, diventa la priorità della loro vita tanto che diventa anche la regola secondo cui gestire un dolore che altrimenti non sarebbe riuscito a gestire. 
Poi però da una parte trova una conferma perché c’è questa adesione tra la teoria dei giochi e il suicidio. E quando ho iniziato le mie ricerche non lo sapevo, quando ci sono arrivata per me è stata una benedizione fare una scoperta del genere, dal punto di vista di uno scrittore. 
Michele capisce che non c’è risposta nella teoria dei giochi, negli studi che ha fatto e allora lì c’è la rottura ma laddove si rompe entra la luce, no? Quindi lui fa anche una scelta di rinascita.

Come riesce a trasmettere il dolore al lettore?

Io non sono capace di scrivere di felicità. Si, è molto più facile scrivere di una storia d’amore ma io non sono capace di renderla interessante. La felicità non è uno stato ma un momento che non dura mai più di tanto, non la trovo interessante mentre nella sofferenza c’è il cambiamento. 
Poi è una cosa che ho sempre fatto, finché uno scrittore mi fece notare che io nei miei romanzi metto sempre la morte perché la vita è la morte. A me interessano molto le forme del dolore.

Marchelli Chiara_Autore
Le notti blu di Chiara Marchelli
Romano De Marco [INCONTRO/17]

Romano De Marco [INCONTRO/17]

Romano De Marco [INCONTRO/17]

Il 2017 è pieno di occasioni. 

Siamo solo a Febbraio e posso dire di aver già segnato sull’agenda tutta una serie di incontri e sto fremendo come una bambina alla notte di Natale! 

L’ultimo giorno di Gennaio, ho avuto la possibilità di andare a conoscere Romano De Marco visto che era uscito da poco il suo nuovo libro. 

L’uomo di casa è stata una lettura veramente interessante e come vi ho detto nella recensione, sono rimasta molto sorpresa dal finale!

Comunque, l’incontro è stato stimolante e molto divertente. 

Vi riporto qui alcune delle domande che abbiamo fatto nel corso della chiacchierata. 

 

 

Al giorno d’oggi sono sempre meno le cose che crediamo di non sapere delle persone, soprattutto da quando tutti condividono tutto sui social. Il fatto di scoprire che la realtà è diversa da come ci appare è rimasta forse l’unica grande paura di oggi, più ancora della paura del mostro?

In effetti, più della paura dell’assassino, a me interessava appunto la paura dell’ignoto, dello scoprire cose che non avremmo mai immaginato del nostro quotidiano e di chi ci vive accanto. Se avete visto l’anno scorso il film “Perfetti sconosciuti” ricorderete che la frase di lancio era “Ognuno di noi ha tre vite: una pubblica, una privata e una segreta”. Il fatto della condivisione sui social è un falso: i social in realtà aiutano a nascondere, a creare un’identità segreta, ad apparire diversi.Io non volevo raccontare la costruzione di un’identità attraverso i social perché l’hanno già fatto in tanti. Sandra, la mia protagonista, le cose le scopre sul campo, muovendosi da casa. Ancora più del dolore per la perdita del marito la sua sofferenza deriva dalla paura di non riuscire ad avere delel risposte, di non scoprire mai la verità sul marito.

Com’è nata l’idea di questo romanzo?

L’idea si è costruita un po’ alla volta. Prima di tutto è nata la voglia di fare qualcosa di diverso. Io vado tutti gli anni in America, faccio base da mia sorella e poi vado in giro. Amo così tanto quella cittadina che mi sono chiesto se non sarebbe stato bello ambientare una storia lì. La coppia di vicini che c’è nel romanzo, Elisabeth e Jeff, esiste veramente: sono proprio come li ho descritti e aspettavano con molta curiosità l’uscita del libro. 
Sono partito dalla situazione idilliaca di una coppia benestante, in cui però accade qualcosa che va a rompere questa idea di serenità. All’inizio la storia era un po’ diversa, senza la parte che si svolge trentacinque anni prima, che è venuta dopo. 
Inizialmente, pensando alla difficoltà di raccontare un personaggio femminile, avevo chiesto a Marilù Oliva di scriverlo a quattro mani. Pensavo che lei avrebbe potuto scrivere le parti femminili in prima persona, e io tutto il resto. Marilù però si è tirata indietro dicendo che l’idea era mia, e adesso penso che sia stato meglio così. Mi ha comunque fatto notare diverse cose che non andavano. 
Non racconto mai fatti realmente accaduti per non turbare la sensibilità dei parenti delle vittime o di eventuali superstiti, di chi ha subito dei crimini, quindi dovevo inventarmi il cold case del secolo e ho pensato che non c’è nulla di più odioso dei crimini contro i bambini. 
La cosa drammatica è che quando il romanzo era già finito, nel 2015, è uscita una notizia di cronaca simile a quello che io avevo scritto: in Baviera si era svolta una vicenda del genere, per cui è vero che spesso la realtà supera la fantasia. 
Invece nel romanzo che sto scrivendo adesso mi sto ispirando a un fatto di cronaca che mi ha colpito molto, la vicenda di Fortuna, la bambina di Napoli seviziata e poi uccisa: per fortuna siamo ancora capaci di restare sconvolti.

Per uno scrittore uomo, non è facile vestire i panni di un personaggio femminile in modo convincente. Come hai lavorato su questo aspetto?

Dalla notte dei tempi gli uomini cercano di entrare nella psicologia femminile e non ci riescono, per cui diciamo che è stato un lavoro abbastanza impegnativo. Mi sono affidato a un gruppo di lettura tutto al femminile di Bologna, composto da quindici donne, presieduto da un’attivista femminista, Samantha P., con cui mi ha messo in contatto la mia amica scrittrice M. Oliva, e la prima stesura del romanzo l’ho fatta leggere a loro. 
Inizialmente il marito di Sandra moriva in un’altra maniera, in una finta rapina, però lei scopriva solo alla fine che era finta, per cui non restava delusa dalla morte dell’uomo. Dopo una settimana arrivava il nuovo vicino di casa nel quartiere residenziale di Vienna, e tra loro nasceva un interesse. 
Le lettrici mi hanno massacrato, e mi sono reso conto che i tempi in effetti non tornavano. 
Una settimana per piangere tuo marito, e basta? 
Troppo poco. 
Così ho spostato l’azione a sei mesi dopo la morte, e ho cambiato le circostanze dell’omicidio affinché Sandra fosse anche delusa oltre che addolorata. 
Come autore non sono assolutamente geloso di quello che scrivo e chiedo aiuto molto volentieri. Questa è stata la prima volta che mi sono rivolto a un gruppo di lettura, ma anche sugli altri romanzi che ho scritto ho sempre fatto un lavoro di editing per conto mio con Chiara B.M., che è una editor molto brava. Con lei lavoriamo per mesi: mi dà consigli sia stilistici che sui contenuti, che a volte accetto e a volte no, per cui discutiamo a lungo. Ci sono diciotto versioni di questo romanzo, che poi magari differiscono solo per una o due frasi, ma questo è il mio modo di lavorare.

Nel romanzo si parla anche di perdita: Sandra e Devon perdono una il marito e una il padre. Perché reagiscono in modo differente?

Vivono la perdita in maniera diversa. Per Sandra accanto al dolore per la perdita del marito subentra subito, viste le circostanze di questa morte, il terrore di aver vissuto con una persona diversa da quella che ha conosciuto, e di non scoprire mai la verità. 
Per Devon è diverso, perché in lei scatta un meccanismo di negazione: non accetta la morte del padre e ancora meno le dicerie su di lui. La barriera si crea perché madre e figlia non riescono a comunicare tra loro su questo. Il dolore si vive in maniera diversa a seconda dell’età, e spesso non si riesce comunque a comunicarlo anche nell’ambito familiare. Sandra ha un doppio carico, come moglie e come madre.

Sapeva già come sarebbe andato a finire il romanzo fin dal principio?

Quando invento una storia metto dentro solo qualche dato: ambientazione, inizio e fine. 
Tutto il resto viene scrivendo, ma il colpo di scena finale lo metto sempre in tutti i miei libri. 
Per me non è pensabile scrivere una storia senza aver bene presente il finale, che è il piatto forte dei romanzi di genere.

Che strada potrebbe prendere secondo te il giallo in Italia?

In Italia quello del thriller è un campo che lascia ancora degli spazi da esplorare. 
Abbiamo Carrisi che vende tanto all’estero e ha un genere ben definito, di stampo anglosassone ma con un’ambientazione sempre sospesa. Non c’è una scuola precisa, in Italia. Il noir è stato un po’ inflazionato, tant’è che anche Dazieri e Carlotto sono tornati al thriller. 
Io ho voluto scrivere un prodotto molto di genere, anche se non ci ho messo un serial killer o altri aspetti truculenti. Qui non era necessario parlare di violenza. 
Molti autori sono stati lanciati in grande come Mirko Zilahy e Luca D’Andrea, però sono fenomeni isolati: non vedo ancora una strada precisa.

«ognuno ha tre vite, una pubblica, una privata, e una segreta»

Gabriel García Márquez

Romano De Marco_Autore
L'Uomo di casa di Romano De Marco
Red kedi con Romano De Marco

Irena Sendlerowa. Storie della buonanotte per bambine ribelli

Irena Sendlerowa. Storie della buonanotte per bambine ribelli

Anche quest’anno vogliamo continuare a far emergere figure di donne e di uomini che, coinvolti come tutti noi nella trama della vita, non si sono lasciati travolgere dal senso di impotenza o dall’indifferenza, ma hanno creduto che «una sola persona può portare avanti la storia»  e che qui c’è la «nostra incidenza: incommensurabile, infinita».

Irena Sendler, è stata un’infermiera e assistente sociale polacca, che collaborò con la Resistenza nella Polonia occupata durante la Seconda guerra mondiale. Divenne famosa per avere salvato, insieme con una ventina di altri membri della Resistenza polacca, circa 2.500 bambini ebrei, facendoli uscire di nascosto dal ghetto di Varsavia, fornendo loro falsi documenti e trovando rifugio per loro in case al di fuori del ghetto. 

Irena nacque nella periferia operaia di Varsavia, in una famiglia cattolica polacca di orientamento politico socialista. Il padre, Stanisław, era medico; egli morì di tifo nel febbraio 1917, avendo contratto la malattia mentre assisteva ammalati che altri suoi colleghi si erano rifiutati di curare. Molti di questi ammalati erano ebrei: dopo la sua morte, i responsabili della comunità ebraica di Varsavia si offrirono di pagare gli studi di Irena come segno di riconoscenza. Di confessione cattolica, la ragazza sperimentò fin dall’adolescenza una profonda vicinanza ed empatia con il mondo ebraico. All’università, per esempio, si oppose alla ghettizzazione degli studenti ebrei, e come conseguenza venne sospesa dall’Università di Varsavia per tre anni.

Terminati gli studi, cominciò a lavorare come assistente sociale nelle città di Otwock e Tarczyn.

Nel 1942 entrò nella resistenza polacca, che al suo interno presentava forti contrasti fra la componente nazionalista e cattolica e la componente minoritaria comunista, contrasti che a volte si ripercuotevano anche nelle fasi decisionali. Il movimento clandestino, in prevalenza cattolico, di cui faceva parte la Sendler, la Żegota, incaricò la donna delle operazioni di salvataggio dei bambini ebrei del ghetto.

Come dipendente dei servizi sociali della municipalità, la Sendler ottenne un permesso speciale per entrare nel ghetto alla ricerca di eventuali sintomi di tifo (i tedeschi temevano che una epidemia di tifo avrebbe potuto spargersi anche al di fuori del ghetto stesso). Durante queste visite, la donna portava sui vestiti una Stella di Davide come segno di solidarietà con il popolo ebraico, come pure per non richiamare l’attenzione su di sé.

Irena, il cui nome di battaglia era “Jolanta”, insieme ad altri membri della Resistenza, organizzò così la fuga dei bambini dal ghetto. I bambini più piccoli vennero portati fuori dal Ghetto dentro ambulanze o altri veicoli.

In altre circostanze, la donna si spacciò per un tecnico di condutture idrauliche e fognature: entrata nel ghetto con un furgone, riuscì a portare fuori alcuni neonati nascondendoli nel fondo di una cassa per attrezzi, o alcuni bambini più grandi chiusi in un sacco di juta. Nel retro del furgone, alcune volte aveva tenuto anche un cane addestrato ad abbaiare quando i soldati nazisti si avvicinavano, coprendo così il pianto dei bambini.

Fuori dal ghetto, la Sendler forniva ai bambini dei falsi documenti con nomi cristiani, e li portava nella campagna, dove li affidava a famiglie cristiane, oppure in alcuni conventi cattolici come quello delle Piccole Ancelle dell’Immacolata a Turkowice e Chotomów. Altri bambini vennero affidati direttamente a preti cattolici che li nascondevano nelle case canoniche. Come lei stessa ricordava Irena Sendler annotò i veri nomi dei bambini accanto a quelli falsi e seppellì gli elenchi dentro bottiglie e vasetti di marmellata sotto un albero del suo giardino, nella speranza di poter un giorno riconsegnare i bambini ai loro genitori.

Avrei potuto fare di più. Questo rimpianto non mi lascia mai.

Nell’ottobre 1943 la Sendler venne arrestata dalla Gestapo: fu sottoposta a pesanti torture (le vennero fratturate le gambe, tanto che rimase inferma a vita), ma non rivelò il proprio segreto. Condannata a morte, venne salvata dalla rete della resistenza polacca attraverso l’organizzazione clandestina Żegota, che riuscì a corrompere con denaro i soldati tedeschi che avrebbero dovuto condurla all’esecuzione. Il suo nome venne così registrato insieme con quello dei giustiziati, e per i mesi rimanenti della guerra visse nell’anonimato, continuando però a organizzare i tentativi di salvataggio di bambini ebrei.

Nel 1965, Irena Sendler venne riconosciuta dallo Yad Vashem di Gerusalemme come una dei Giusti tra le nazioni. Soltanto in quell’occasione il governo comunista le diede il permesso di viaggiare all’estero, per ricevere il riconoscimento in Israele.

Storie della buonanotte per bambine ribelli di Elena Favilli e Francesca Cavallo_Irena Sendler

Irena Sendler

Varsavia, 15 febbraio 1910
Varsavia, 12 maggio 2008

Storie della buonanotte per bambine ribelli di Elena Favilli e Francesca Cavallo _Irena Sendler in a nurses outfit during

Irena Sendler

Chiara Gamberale [INCONTRO/17]

Chiara Gamberale [INCONTRO/17]

“E chi saresti tu?” chiese Qualcosa di Troppo.
“Io? Ma se mi stavi chiamando! Chi saresti tu, invece, che ti sei permessa di disturbare la cosa importantissima che non stavo facendo?”
“Come si fa a NON fare un cosa importantissima?”

Qualcosa è la sua nuova avventura, anche dal punto di vista formale e stilistico. Come è nata?

Io cambio sempre. Quello che non cambia sono le mie ossessioni. Tutti i libri di un autore si parlano. Ed è quello che io cerco in uno scrittore. Non mi fido di chi prima scrive un giallo, poi un romanzo d’amore e poi prova con l’auto-fiction: ma qual è la sua vera urgenza? Senza dubbio la mia narrativa ruota attorno ad alcune paure e ogni mio libro è il tentativo di affrontarle da un punto di vista diverso per ricavarne nuove verità.

Ha scelto una forma inedita contaminata con le illustrazioni…

Fin dall’adolescenza coltivavo il desiderio di scrivere qualcosa alla Calvino, un universo completamente immaginato da me, in cui potessi inserire le mie domande. Dopo di che mi sono detta che sarebbe stato bello dialogare con un illustratore. Mi ero innamorata di Tuono Pettinato, della sua vena poetica, grazie a una raccolta in cui c’era anche Zerocalcare. Poi l’ho ritrovato su Internazionale e leggendo Nevermind sulla vita di Kurt Cobain, mi ha davvero strappato il cuore. Così l’ho chiamato e lui si è messo a disposizione. È un vero artista.

Come si è articolata la vostra collaborazione?

Ho iniziato a scrivere pensando alle illustrazioni. Gli ho consegnato il testo e lui l’ha corredato, ma non si è limitato a seguire le mie indicazioni. Essendo anche un autore, ha risposto ad alcune sollecitazioni e ad altre no, per cui è iniziato un dialogo. La scrittura a sua volta si è sintonizzata sulle sue proposte. Ne è venuto fuori qualcosa che, nonostante sia ambientato in un regno che non c’è, affronta problemi umani troppo umani.

In Qualcosa si percepisce la volontà di andare all’essenza, al cuore di quelli che sono i personaggi dei suoi romanzi, a partire dai nomi. Forse l’operazione più difficile per uno scrittore: avere la profondità di un classico, un senso di universalità.

È vero ed è stato faticosissimo perché io ho la testa piena di parole e di pensieri. Mi sveglio la mattina con un’orchestra stonata nella testa. Ho lavorato molto per raggiungere una scrittura che avesse a che fare col classico, cioè con qualcosa in grado di restare. Per questo pensavo a Calvino, a Saint-Exupéry. Non a caso nell’edizione Feltrinelli ho curato la prefazione. E poi Pinocchio: lo adoro. In un corso molto interessante di psicanalisi e letteratura con Stefano Ferrari, si sottolineava quanto lo stile sia terapeutico per l’umore. Per me che sono un tipo ansioso, racchiudere tutta la mia urgenza in uno stile che abbia poche parole e pochi nomi è stata una grandissima sfida dal punto di vista letterario. La protagonista si chiama Qualcosa di Troppo, suo padre il re, Qualcosa di Importante. Solo col loro nome ti ho già detto chi sono.

Uno stile molto diverso da quello di Adesso, il suo precedente romanzo…

Sì, venivo da un testo nevrotico come Adesso, un romanzo sul momento, su cosa diventiamo in un attimo fatale e la scrittura era a servizio di quella brachicardia. E invece Qualcosa è un romanzo su che cosa siamo oggi e sempre’ e la scrittura doveva mettersi a servizio di questo respiro.

In Qualcosa affronta anche il tema della necessità di disconnettersi da una società dove il maggior passatempo dei ragazzi è tuffarsi in Smorfialibro, alias Facebook. Quanto è importante oggi riappropriarsi di sé a prescindere dal sé virtuale?

“Rispondo con questo (e ci mostra il suo cellulare modello basic). Perfino io che non possiedo uno smartphone e cerco di difendermi da questi strumenti, non sono stata indenne dal caderci. Può succedere in tanti modi, persino senza accorgersene. Essendo una persona compulsiva mi sono tenuta a distanza dai social network. Eppure, come raccontavo qualche mese fa in un pezzo per La Stampa ci sono cascata anch’io. Credo in generale sia un problema enorme”.

E questo disagio emerge nel libro.

Sì, in questo romanzo, che è sui nostri sempiterni impedimenti, l’amore e la morte, c’è qualcosa che, a proposito di pieno e di vuoto, ha a che fare proprio con l’oggi, cioè i social network. Questo è un mondo in cui paradossalmente la società sembra venirci incontro rispetto al vuoto. In realtà ci sta dando solo dei falsi amici, dei tranelli. Quante persone dopo la fine di una relazione studiano il profilo Facebook dell’ex partner? Come se si potesse davvero capire qualcosa di una persona da lì. E il rischio è quello che arrivi a convincerti che la tua stessa identità sia quella del tuo profilo virtuale. E cosa accade nei due momenti cruciali della vita, quando muore qualcuno di caro o ci si innamora, nei momenti dunque dei grandi dolori e delle grandi felicità? Se non ti conosci, sono esperienze che ti frantumano e non possono nemmeno arricchirti. Spero di aver dato un allarme con questo romanzo. Senza comunque dimenticare l’ironia.

Una delle soluzioni proposte dal libro può essere quella del silenzio come suggerisce il Cavalier Niente. Oppure, come scriveva in quell’articolo che menzionava, “regalatevi Proust e vi toglierete le ansie del web”. A proposito di tempo perduto e ritrovato…

Esatto. Ero caduta nel vortice del controllare ossessivamente cosa la gente scrivesse di me sul web. Sentivo che c’era un pericolo e mi sono curata con Proust, aiutata dal fatto che la mia vita è divisa in due: quella in cui scrivo in isole fuori dal mondo e anche dalla gente, in cui la connessione funziona malissimo; e quello in cui sono in Italia con le mie relazioni e le mie presentazioni. Il mio rischio è quello di essere sommersa dagli altri, come in un movimento di sistole e diastole, niente o troppo. Ho approfittato questa estate, quando sono stata nell’isola di Milos per scrivere Qualcosa, per iniziare la mia terapia d’urto: leggere i sette volumi della Recherche.

Cosa la spaventa in particolare?

Da piccola passavo ore intere del pomeriggio dal portiere. I miei lavoravano entrambi. E in quei pomeriggi mi annoiavo, avevo paura, mi concentravo. Provavo insomma sentimenti, anche negativi, ma di cui tutti abbiamo bisogno. Ed è nella guardiola di quel portiere che ho scritto il mio primo romanzo. Avevo 7 anni e mezzo: Chiara e Riky e Chiara e Riky crescono, influenzata palesemente da Piccole Donne. A volte mi chiedo: se fossi nata oggi, sarei riuscita a concentrarmi così tanto da iniziare a scrivere? Oppure sarei stata distratta da tutto questo ‘troppo’ che ci circonda? Ecco perché ho scritto questo romanzo in due direzioni, cioè guardando dentro l’essere umano, che è fatto così, e poi all’esterno, con questa società che non lo aiuta. Apparentemente sembra farlo, ma in realtà lo mette più a rischio.

Un messaggio trasversale, ma che può essere ancora più incisivo per i ragazzi. E non è un caso che il ricavato di questo libro andrà a Casa Oz, l’associazione che si occupa dei bambini che incontrano la malattia e delle loro famiglie.

Era la cosa giusta. Da un anno, quando vengo chiamata dalle scuole, anziché presentare il mio libro, vado a fare educazione sentimentale. Penso che noi scrittori abbiamo una missione, politica e culturale. Quindi faccio spegnere loro il cellulare per quelle tre ore, pretendo che abbiano letto il libro – anche tramite fotocopie, non è un problema – ma è necessario, altrimenti risulta una perdita di tempo. E poi giochiamo con i temi del libro. Con Adesso abbiamo fatto un laboratorio sulle paure e sui desideri. Son emersi gli spunti più disparati. Con Qualcosa mi potrò sbizzarrire con un nuovo laboratorio sul vuoto e su come lo si può riempire.

I suoi libri hanno sempre un risvolto pragmatico. Pensiamo a Per dieci minuti, al curriculum sentimentale in Adesso, alle parole illustrate di Qualcosa che sono un autentico monito…

Sono la mia prima paziente. Mi ha fatto sorridere sentire un prete dirmi che in confessione invitava i suoi fedeli a recitare tre Ave Maria e a leggere Per dieci minuti. Ormai è entrato nelle terapie psicanalitiche. È un libro che ha superato i confini della letteratura ed è entrato nella vita vera.

Perché secondo lei?

Perché i lettori hanno sentito che c’era un’esperienza vera dentro. Io l’avevo provato per tutti. Non avevo deciso di scriverne un libro, ma il decimo giorno di quell’esperimento mi sono detta: ‘I lettori hanno condiviso con me tanti loro guai; per una volta ecco una soluzione’.
Chiara Gamberale_Autore
Qualcosa di Chiara Gamberale