Partendo dal principio, inizialmente hai scritto sceneggiature per il cinema e poi romanzi. Che differenze ci sono in questi due campi e quali sono le difficoltà?
Come dice Pasolini, la sceneggiatura è una struttura che tende a un’altra struttura, non è un’opera che finisce lì dove vai a scrivere, è qualcosa che è fatta perché poi diventi un’altra cosa, quindi lo stile è importante ma, nei dialoghi, mentre nell’azione poi essere anche più sciolto, più superficiale.
Nella stesura del romanzo invece, devi far vedere al lettore un ambiente, un personaggio, una situazione, e questo è stato il primo scoglio da superare. La difficoltà maggiore è far vedere attraverso le parole, e non attraverso il mezzo filmico. Una delle cose a cui tenevo era mostrare in questa trilogia i diversi modi in cui le persone possono piangere, perché mi affascina molto questo aspetto, i tanti modi in cui uno scrittore può raccontare del pianto.
Rimanendo in tema scrittura, ti è sembrato che il tuo stile sia cambiato dal primo al secondo libro?
La scrittura è cambiata tantissimo, per due motivi: primo, perchè più scrivi, più alleni la scrittura, più diventa facile raccontare le cose. Il secondo è il lavoro fondamentale con gli editor, perché ti fa capire tantissime cose del percorso che stai facendo. L’incontro con i lettori tra il primo e il secondo libro ti fa capire se devi prendere una strada piuttosto che un’altra, e poi per me è stato fondamentale il fatto che in questo anno ho incontrato tantissimi scrittori che sono poi diventati miei cari amici. Quando ti confronti con altri scrittori è inevitabile che la tua scrittura cambi, e nel terzo cambierà ancora, come anche nei miei prossimi romanzi.
C’è una scena nel libro in cui hai usato nomi di colori molto particolari. Come sei arrivato a quella scelta?
Io sono un appassionato di grafica, ho lavorato anche in grafica, ho passato quindi le giornate a guardare i pantoni, i loro nomi, le loro variazioni e dato che sono anche un maniaco appunto tutto ciò che riverbera nel mio cervello, scrivendo quaderni pieni di parole, o storie di persone che incontro e che mi invento. Questi nomi di questi colori li ho appuntati qualche anno fa sul taccuino dei colori. Niente è caso, faccio tantissime ricerche quindi nessun nome è lì a caso. C’è anche un chiaro riferimento a “La città incantata” di Miyazaki.
Come mai deciso di far ruotare tutto attorno alla Paura?
Se inizio a parlare della paura potrei non smettere più: adoro raccontare ai ragazzi di come sto allenando mia figlia di 3 anni e mezzo allo spavento (infatti mia moglie mi ha detto di darci un taglio), e quando le racconto le storie della buonanotte sono sempre storie di decapitazioni, zombie…. In generale, ho capito che la paura tiene strette le persone quando portavo le ragazze al cinema, al primo appuntamento, e sceglievo un film horror in modo che loro si avvicinassero a me, spaventate. La paura tiene vicini, trovo sia un sentimento affascinante di avvicinamento, è la voglia di trovare un’altra persona con cui condividere e proteggersi. Quello che ci ha fatto evolvere come esseri umani è la paura, perché quando i primitivi hanno capito che insieme si poteva ovviare ai pericoli, si è passati dalla caverna, al comune, alla città, alla nazione. Ormai oggi la paura viene usata, soprattutto a livello politico per chiudersi, non per proteggersi, e questo è uno sbaglio.
Molto caratteristiche sono le ambientazioni che hanno tanto di italiano.
È una scelta molto precisa, perchè l’Italia ha delle potenzialità narrative incredibili. Credo che la provincia italiana sia piena di orrore, perché c’è tanta noia, e dove c’è la noia ci sono i mostri, e dove ci sono i mostri c’è la paura, che mi affascina.
Quali sono le città che ti hanno ispirato?
Le mie ispirazioni sono le città invisibili di Italo Calvino, che poi sono italiane. Tra queste c’è anche una città piena di aquiloni, come nel mio libro.
Tra le tematiche che ci sono in Petrademone, ci sono ovviamente quelle per ragazzi, ma poiché è un libro che parte dal dolore e dall’elaborazione del lutto, quando hai inserito queste tematiche non hai avuto timore che poi potesse essere limitativo per il tuo bacino di lettori?
Quando scrivo non parto mai di tematiche, quando le persone mi dicono che hanno apprezzato il tema del coraggio, dell’amicizia o della diversità, io rimango stupito perchè non ci avevo proprio pensato. Non voglio scrivere di valori, ma di storie che siano belle da leggere. Mi interessava, invece, raccontare la morte e la perdita, perché questa serie nasce da una mia perdita molto forte. Per me, i due temi che mi interessano sono la perdita e la memoria, e non mi interessa se un professore dovesse trovare il libro troppo cupo per la sua classe, perché a me piace scrivere di questo. Anzi, quello che sto scrivendo è ancora più dark.
Frida, per non perdere i ricordi, li scrive e li mette dentro uno scrigno. Secondo te, è effettivamente un buon metodo?
Sì, scrivere è un metodo straordinario. Io sono un fanatico del non perdere i ricordi, scrivo tutto sui diari, e questo mi serve molto, è come se affidassi il bello a una entità più affidabile, perchè la memoria è selettiva. Quando si scrive, per necessità si elabora il ricordo, quindi si è costretti ad ampliarlo, ad arricchirlo con altre cose, lo si tradisce anche, e tradire il ricordo non è fargli del male, ma amplificarlo, renderlo anche più poetico.
Quali sono le grandi difficoltà che riscontri come scrittore nel creare un mondo in grado di catturare l’attenzione da chi è sovrastimolato da altre cose, come film e serie tv?
La vera difficoltà è di essere onesti: quando crei un mondo devi credere in quello che stai scrivendo, non devi essere superficiale. E non significa descrivere ogni cosa nel minimo dettaglio. Inoltre, una serie tv, un film, ti danno una visione passiva, invece andando nelle scuole noto che i ragazzi hanno voglia di immaginare, di completare quello che lo scrittore sta dicendo. Un bravo scrittore, come dice Calvino, deve nascondere le cose, non rivelarle, ed è compito del lettore andare a cercarle. Se il lettore non ha niente da scoprire, lo scrittore ha sbagliato il suo mestiere. Nascondere, però con onestà, dando le chiavi con cui leggere. Io Frida non la descrivo quasi mai, un personaggio deve emergere da quello che fa, ho cercato di darle un volto pagina dopo pagina. Meno descrivi poi è più facile per il lettore immedesimarsi, infatti mi spaventa un po’ l’idea che diventerà un film perché da quel momento Petrademone sarà quei volti.
Parlando di personaggi, qual è il tuo preferito?
Forse Drogo. Che poi, nelle scuole, mi chiedono spesso se mi sono ispirato al Trono di Spade per il nome (Khal Drogo), in realtà no, per niente, perché il nome viene da “Il Deserto dei Tartari” di Buzzati.
Cosa ci puoi anticipare del terzo libro?
È stato il più complesso da scrivere perché ho dovuto concludere tutte le linee, perché odio non chiudere tutte le linee narrative alla fine di una saga. Il finale spero non sia scontato, perché non mi piacciono i finali in cui il protagonista ottiene tutto senza aver perso nulla. Un buon finale deve far sì che l’eroe conquisti il suo premio, però a scapito di qualcosa. E non trovo giusto uccidere tutto i personaggi.