Dante Alighieri, è stato un poeta, scrittore e politico italiano.
A partire dal XX secolo e nei primi anni del XXI, è entrato a far parte della cultura di massa, ed è stato stabilito dal governo e dal parlamento che il 25 marzo sia il giorno finalizzato al culto di Dante, istituendo dal 2020 il cosiddetto Dantedì.
Oggi, in un certo qual modo, stiamo festeggiando un personalissimo Dantedì.
No, non vi proporrei mai la recensione della Divina Commedia, perché detto tra di noi, non ho le competenze per rendere giustizia ad un’opera del genere.
Però, come vi ho già accennato QUI, insieme ad un gruppo di Blogger abbiamo deciso di fare degli approfondimenti sulla nuova edizione, edita da Mondadori.
Come si può immaginare, arrivare ad architettare tutto in modo corretto, non è stato facile e il lavoro che abbiamo svolto, ci ha portato a seguire un percorso spinoso. Ma di cosa vi parlerò oggi?
Or discendiamo omai a maggior pieta;
già ogne stella cade che saliva
quand’ io mi mossi, e ’l troppo star si vieta».
Noi ricidemmo il cerchio a l’altra riva
sovr’ una fonte che bolle e riversa
per un fossato che da lei deriva.
L’acqua era buia assai più che persa;
e noi, in compagnia de l’onde bige,
intrammo giù per una via diversa.
In la palude va c’ha nome Stige
questo tristo ruscel, quand’ è disceso
al piè de le maligne piagge grige.
E io, che di mirare stava inteso,
vidi genti fangose in quel pantano,
ignude tutte, con sembiante offeso.
Queste si percotean non pur con mano,
ma con la testa e col petto e coi piedi,
troncandosi co’ denti a brano a brano.
Lo buon maestro disse: «Figlio, or vedi
l’anime di color cui vinse l’ira;
e anche vo’ che tu per certo credi
che sotto l’acqua è gente che sospira,
e fanno pullular quest’ acqua al summo,
come l’occhio ti dice, u’ che s’aggira.
Fitti nel limo dicon: “Tristi fummo
ne l’aere dolce che dal sol s’allegra,
portando dentro accidïoso fummo:
or ci attristiam ne la belletta negra”.
Quest’ inno si gorgoglian ne la strozza,
ché dir nol posson con parola integra».
Così girammo de la lorda pozza
grand’ arco, tra la ripa secca e ’l mézzo,
con li occhi vòlti a chi del fango ingozza.
Venimmo al piè d’una torre al da sezzo.
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Ho scelto il quinto girone, quello dedicato agli Iracondi e gli Accidiosi.
Ecco, devo ammettere che non sono un pozzo di scienza, e fino agli Iracondi non ho avuto problemi nel capire di chi stessimo parlando ma, per gli Accidiosi… beh, ho cercato il significato su Wikipedia.
“L’accidia o acedia è l’avversione all’operare, mista a noia e indifferenza.”
Quindi, il sunto dei sunti (o il bigino del bigino) è che Dante, in questo caso condanna “Uno esplode nella violenza, cercando di distruggere tutto, l’altro si autocommisera, finendo per distruggere se stesso.” e se ben ci pensiamo, questi due comportamenti sono ancora molto presenti ai giorni nostri.
In molti ambiti, lavorativi e relazionali, questi comportamenti vanno a braccetto.
Basti pensare ad un Capo molto irascibile che non si cura di chi lo circonda e al galoppino che subisce, conscio di subire un torto ma che non cerca di trovar rimedio.
Oppure, nell’equilibrio di una coppia, possiamo trovare un carattere molto forte e violento (che la cronaca ama definire “passionale”) che tiene sotto di sé un animo più chiuso, quasi apatico verso la vita.
O ancora, un filone politico che crede nel “solo ripagando il torto con la stessa moneta, si può lavare l’onta subita” rispetto agli oppositori (ma non sempre) che pur avendo un’opinione diversa, osservano lo sfacelo che si compie davanti ai loro occhi, convinti che anche intervenendo non riuscirebbero a cambiar le cose a lungo termine.
Gli Iracondi, che vengono posti nella parte alta del fiume Stige mentre si scontrano tra di loro in malo modo e son spogli dei loro vestiti, ad oggi in alcuni ambiti sono figure osannate, approvate dal popolo e spesso, giustificate dall’opinione pubblica.
Come accennavo sopra, quelli che ricadrebbero in quel girone, sono prettamente persone che decidono di seguire un certo stato d’animo.
«Non tramonti il sole sopra la vostra ira»
Nella psicologia, provare dei sentimenti negativi come l’odio, non è di per sé una cosa nociva. Siamo esseri umani e come tali, ci è impossibile rimaner puri sotto ogni punto di vista.
Per una piccola parte però, è il sentimento giusto per trovare lo slancio e arrivare a migliorarsi e concentrarsi su sé stessi ma, quando si rimane ingabbiati dentro quel sentimento, quando diventa uno stile di vita, allora se ne diventa irrimediabilmente schiavi.
Distruzione di chi ti circonda, invidia per le cose altrui, odio verso una cultura o una ideologia.
Negli ultimi anni, con l’avvento dei molti social, questo sentimento sembra essersi quadruplicato.
Un tempo, quando la comunicazione era limitata e l’opinione pubblica era circoscritta al luogo in cui si viveva, certi modi di fare venivano arginati e sedati con l’ausilio della religione (anche se nel corso del tempo ha perso “potere”) e/o la legge (nell’imaginario attuale, per la maggior parte del tempo viene spesso vista come una giustizia impari e corrotta). Non che si vivesse in un periodo di grande amore, tutt’altro, ma tante cose venivano nascoste “sotto il tappeto” perché considerate un’onta di famiglia. Certo, i casi di odio non mancavano.
Oggi comunque, dato che internet è diventato usufruibile in modo semplice e veloce, al poso di esser sempre un mezzo vantaggioso, si è rivelata un’arma a doppio taglio.
In alcuni casi, per una questione di privacy o per il semplice fatto che non ci si è mai posto il problema, si può interagire con altri utenti nel completo anonimato e senza esser rintracciabili (es. telegram). Così, far circolare commenti pieni di astio o notizie con incitamento all’odio (magari su basi di eventi falsi) è molto più semplice, e visto che il bacino d’utenza è molto ampio, dato che adesso quasi tutto il mondo può interagire in modo simultaneo, molti pensieri trovano terreno fertile. Com’è comprensibile, non essendo tutti uguali, certe persone sono meno pericolose di altre. Mentre da un lato magari abbiamo il razzista che scende in piazza e picchia il mal capitato di turno, dall’altra abbiamo il commentatore folle, che lo applaude e lo incita a proseguire, tranquillo del fatto che tanto, non subirà alcuna ripercussione.
Appena sotto agli Iracondi, nel fiume Stige abbiamo anche gli Accidiosi, coloro che in vita hanno vissuto subendo ogni evento.
Tommaso d’Aquino, definisce questa condizione come «tristezza profonda, che deprime l’animo dell’uomo al punto che non desidera più fare niente».
Ci sono molti pensieri contrastanti in questo senso. Chi sono alla fine, i peccatori di questo girone e perché non è facile incasellarli?
“Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (WHO, in inglese World Health Organization ovvero WHO) la depressione colpisce 322 milioni di persone nel mondo e, quindi, è un’importante causa di disabilità planetaria, con un aumento del 18% di depressi stimato tra il 2005 e il 2015.” Quindi, dovremmo esser tutti dei peccatori?
Come per il sentimento dell’Ira, anche in questo caso Dante voleva far passare il messaggio che essere “accidiosi” è un peccato solo quando è una scelta.
Una persona che soffre di depressione, che si sminuisce perché non ha fiducia in sé stesso, è solo una persona problematica che andrebbe seguita e aiutata (un tempo, queste persone venivano rinchiuse per esser curate mentre oggi, spesso vengono lasciate in balia dei propri problemi e sminuiti, perché scambiati come semplici nullafacenti o bisognosi di attenzioni). Invece, avete presente il galoppino di prima, che non fa nulla per migliorare la sua situazione? Ecco, un Accidioso è colui che si “siede” e vive dentro di sé una rabbia muta e al di fuori, subisce passivamente.
Qui troviamo le persone in gabbia, a cui è stata aperta la porta ma che sono così abituate alla loro condizione svantaggiosa che non escono, non abbandonano ciò che conoscono e che più comunamente parlando, passano da Vittime volontarie a Carnefici, facendo soffrire chiunque si avvicini.
Rimanendo in parallelo con gli Iracondi, dato che Dante li mette in coppia e li pone uno sopra l’altro, gli Accidiosi sono gli utenti social che osservano tutto ma non agiscono, non prendono una posizione. Un po’ come il detto “Tengo famiglia” è infatti utilizzata, anche come “frase a effetto”, per indicare la giustificazione in base alla quale l’ethos di un individuo, di un’intera società, o di un suo sottoinsieme, è un alibi in grado di neutralizzare, giustificare o accettare alcuni comportamenti (azioni, ma anche omissioni) che sarebbero altrimenti moralmente disdicevoli, o ignobili, o perfino fortemente devianti. La frase considerata emblematica di una sorta di “vizio morale” che prospera in Italia (ma anche altrove) che comporta lo scendere a patti con la propria coscienza, l’indulgere al fatalismo della “compromissione” morale (e non di un altrimenti legittimo “compromesso”), in ossequio a “ipotetiche istanze superiori”.
Prendetevi quindi un momento per guardarvi dentro, fate un respiro profondo e datevi per una volta alla meditazione. Volete veramente passare l’eternità a viver male? Tra l’esser con il naso a fior di melma, litigando con il vostro vicino senza distanze di sicurezza o l’esser sul fondo, a sopportare sulle vostre spalle gente che non sta mai ferma? Vale la pena vivere adesso senza regole, con la quasi sicurezza che lo stato non farà nulla, per poi pentirvene dopo? Ricordiamoci che Dante, per un torto subito o che considerava tale, ha creato dei gironi per questi soggetti.
Dovremmo sperare di non vivere nella stessa epoca di una persona così, o almeno, di non incontrarlo mai per non correre il rischio di rimaner nella sua memoria. Ma si sa che la sfiga ci vede benissimo.