Charlotte Link [INCONTRO/17]

Charlotte Link [INCONTRO/17]

Non c’era possibilità di fuga, quantomeno nessuna che non fosse elaborata e complessa e che non richiedesse molto rumore. Il che stava a significare che ci si poteva scordare di andarsene di lì.

Dico sempre che amo andare agli incontri ed è vero. 

Amo la possibilità di dar voce a tutte le mie domande guardando negli occhi lo scrittore. 

Amo gli pettegolezzi fatti prima dell’incontro, l’ansia di arrivare per tempo. 

Amo il dopo, quando tutti siamo più leggeri e ci sfottiamo un pò. 

Amo farmi coinvolgere dalle belle parole dello scrittore e magari cambiare idea del libro perché ho visto, che qualche volta il mio giudizio negativo deriva da un’incomprensione o da dei dubbi. 

Lunedì scorso, ho avuto modo di parlare con Charlotte e di intervistarla insieme alle altre Blogger. 

Come vi dicevo, il bello di queste cose sta anche nel panico che precede l’incontro, quando stai ancora cercando di capire che domande fare. 

“Senti, ma te sai già cosa chiedere?”
“Si. Voglio sapere che droghe assume prima di scrivere”

Perchè si, questa lettura è stata bella ma anche sofferta.

Ammetto che comunque è stata difficile, Charlotte parlava solo tedesco e per quanto mi sia piaciuto ascoltarla, la diretta è stata così lunga che volevo morire. 

La traduttrice (santa donna), doveva aspettare la nostra domanda, tradurgliela, stenografare la risposta e tradurcela.

Più di un’ora di intervista ma giustamente, non potevamo fare altro. Pazientemente, abbiamo avuto tutti la possibilità di chiederle qualcosa (e di fare spoiler) e lei, tranquillamente, dissipava i nostri dubbi o saziava le nostre curiosità. 

Ho deciso di riportarvi solo alcune domande. Se invece, volete conoscere ogni dettaglio, potete andare sulla pagina della Corbaccio a vedere il video!

Ha scritto molti libri di genere diverso. Da dove riceve maggiore ispirazione? Cosa le dà il la per partire con una nuova storia?

La primissima ispirazione arriva sempre da qualcosa di banale e quotidiano. Può essere una frase che sento, oppure l’espressione di un viso e niente di più. Questo costituisce il primo episodio di una sequenza di riflessioni che faccio, che mi portano a immaginare una storia che non ha niente a che fare con la persona che ha fatto nascere quella scintilla, e il tutto diventa un libro.

Quindi, nessun fatto di cronaca specifica le ha dato ispirazione per quanto riguarda i fatti narrati nel libro? 

Non sono stati tanto i fatti di cronaca o i giornali che mi hanno dato lo spunto, ma prima di cominciare a scrivere questo libro ero stata per ragioni mie a Sofia, in Bulgaria, e ho avuto quindi dei contatti con gente del posto. Queste persone mi hanno raccontato di una ragazza è scomparsa in circostanze misteriose, e di lei non si sono più avute notizie. Questa è stata la prima scintilla della storia. Molte delle persone che scompaiono senza lasciare traccia, spesso lo fanno volontariamente e non vogliono più dare notizia di sé.

I personaggi del romanzo, sono tanti e molto diversi tra loro. Si è ispirata a qualcuno in particolare oppure sono frutto della sua fantasia?

Non creo mai delle figure prese come copie da qualcuno che conosco veramente, ma sono le persone che finisco per conoscere che mi forniscono ispirazione per i personaggi dei miei libri. Osservo molto attentamente sia le mie esperienze di vita, sia quelle di queste persone e poi costruisco a poco a poco un personaggio che è un insieme di tutti i dettagli e sviluppo una sua vita specifica.

Quanto è importante l’immedesimazione durante la scrittura?

Tento di non identificarmi mai eccessivamente nei miei personaggi, perché devo poi anche scriverne e quindi è necessario mantenere una certa distanza. È sempre una questione di equilibri: da una parte mi devo proprio immergere in tutte le sensazioni dei personaggi, ma contemporaneamente devo mantenere la distanza che mi serve per rimanere oggettiva e neutrale nel momento in cui scrivo.

Quando scrive un romanzo come decide chi sopravvive e chi muore?

Come anticipavo prima, spesso ho un piano iniziale, col quale parto, però i personaggi a un certo punto sviluppano una vita propria e a volte uno che era destinato a morire in realtà sopravvive, o viceversa, quindi il mio piano iniziale può cambiare.

C’è un personaggio a cui è più legata?

Simon. C’è un modo di dire tedesco, “uovo molle”, che descrive una persona debole, e quello di Simon è un personaggio interessante proprio perché non risponde all’idea di uomo forte. È un personaggio pieno di dubbi, che si lascia sfruttare ma arriva a un punto in cui capisce che non può andare avanti così, perché i suoi insuccessi si moltiplicano a tutti i livelli e ha bisogno di un evento drammatico per cambiare.

Non ha avuto paura che Nathalie risultasse un personaggio troppo negativo?

Posso immaginare che alcuni lettori possano provare difficoltà a identificarsi con lei perché è un personaggio disturbato, tuttavia il lettore deve anche essere capace di sopportare questo genere di personaggio, perché ce ne sono anche nella nostra vita di tutti i giorni. Nel suo caso specifico c’è però un’evoluzione in positivo.

La scelta può diventare una colpa?

Questo è un tema molto importante all’interno del libro, perché a volte nella vita hai veramente delle frazioni di secondo per decidere che cosa fare, ed è quello che accade sulla spiaggia a Simon. Lui ha troppe poche informazioni per sapere se la sua decisione di un momento sarà corretta oppure no, così come spesso accade nella vita. È soltanto dopo molto tempo che guardandoti indietro puoi stabilire se è stata una buona scelta o no. Proprio questa tematica mi affascina e mi coinvolge molto, è una questione veramente interessante: fai una scelta e poi ti ritrovi a dover combattere contro un senso di colpa causato da quella scelta.

Quando finisce di scrivere un libro, a chi lo fa leggere per primo?

Appena finisco un romanzo lo do da leggere contemporaneamente a mio marito e alla mia editrice. Mio marito direi che si comporta in una maniera abbastanza particolare: in prima battuta mi dice tutto quello che non gli è piaciuto, e quando sono proprio a terra mi dice che sì, in fondo il libro può andare. Invece la mia editrice si comporta al contrario: prima mi elenca tutti i pregi e poi le cose che possono essere cambiate o migliorate. La cosa è interessante perché ognuno tende a valutare diversamente i vari personaggi. È importante sapere quando un certo personaggio a qualcuno non sembra comportarsi in maniera logica: questo per me è un segnale molto importante, perché significa che probabilmente non sono riuscita a descriverlo correttamente e quindi devo rimetterci le mani e cambiare qualcosa.

Avverte la pressione di dover scrivere ogni volta un altro bestseller?

In una certa misura il successo costituisce una pressione. Il fatto che l’ultimo libro abbia avuto successo muove tutta una serie di aspettative rispetto al prossimo che dovrà essere “bello tanto quanto” o anche migliore. È sempre difficile quando vedo sulla fascetta del libro non ancora entrato  nelle librerie “l’ultimo bestseller di …”. Questa è una cosa abbastanza difficile da gestire e che desta sempre grandi attese.

Charlotte Link_Autore
La scelta decisiva di Charlotte Link

Chiara Marchelli [INCONTRO/17]

Chiara Marchelli [INCONTRO/17]

Il passare del tempo invece di alleviare i pesi ne moltiplica gli echi

Cosa ti ha spinto a raccontare una storia familiare così difficile? 

L’ho scelta perché quando scrivo queste storie, sono generalmente cose che ci toccano. Non è una storia autobiografica però mi ha sfiorata da vicino dato che è successa a persone che mi sono molto care. 
Come spesso mi succede, se una cosa del genere rimane dentro, sedimenta e non va via ne devo fare qualcosa. 

Appena si inizia a leggere si capisce di entrare in una storia drammatica. La sospensione scandita da piccoli riti che si svuotano nel momento in cui ci si rende conto che sarebbero potuti essere delle condivisioni ma non lo sono più. È una cosa voluta?

E’ venuto scrivendo. Francamente stavo scrivendo una storia, poi questi sono sempre ragionamenti a posteriori. 
Però forse volevo mantenere una certa discrezione nei confronti di una storia del genere perché ho voluto trattarla nella misura che io ritenevo migliore per me. Nel senso che avendo molto rispetto per un dolore di questo tipo, non volendo fare facili sentimentalismi, forse uno dei punti fondamentali che ho affrontato anche attraverso la scelta del linguaggio è stato quello di conservare una distanza di modo che la storia parlasse da sé.

E’ bello come hai inserito la teoria dei giochi, come lui cerchi di giustificare il dolore basandosi su delle formule matematiche, delle formule scritte e definite.

Si, è un po’ quello che tutti noi facciamo: tentiamo di contenere tutto ciò che ci spaventa.
Questo è un uomo che parte corazzato, distrutto. Prova a vivere come gli studiosi spesso fanno: a cacciarsi dentro, diventa la priorità della loro vita tanto che diventa anche la regola secondo cui gestire un dolore che altrimenti non sarebbe riuscito a gestire. 
Poi però da una parte trova una conferma perché c’è questa adesione tra la teoria dei giochi e il suicidio. E quando ho iniziato le mie ricerche non lo sapevo, quando ci sono arrivata per me è stata una benedizione fare una scoperta del genere, dal punto di vista di uno scrittore. 
Michele capisce che non c’è risposta nella teoria dei giochi, negli studi che ha fatto e allora lì c’è la rottura ma laddove si rompe entra la luce, no? Quindi lui fa anche una scelta di rinascita.

Come riesce a trasmettere il dolore al lettore?

Io non sono capace di scrivere di felicità. Si, è molto più facile scrivere di una storia d’amore ma io non sono capace di renderla interessante. La felicità non è uno stato ma un momento che non dura mai più di tanto, non la trovo interessante mentre nella sofferenza c’è il cambiamento. 
Poi è una cosa che ho sempre fatto, finché uno scrittore mi fece notare che io nei miei romanzi metto sempre la morte perché la vita è la morte. A me interessano molto le forme del dolore.

Marchelli Chiara_Autore
Le notti blu di Chiara Marchelli
Romano De Marco [INCONTRO/17]

Romano De Marco [INCONTRO/17]

Romano De Marco [INCONTRO/17]

Il 2017 è pieno di occasioni. 

Siamo solo a Febbraio e posso dire di aver già segnato sull’agenda tutta una serie di incontri e sto fremendo come una bambina alla notte di Natale! 

L’ultimo giorno di Gennaio, ho avuto la possibilità di andare a conoscere Romano De Marco visto che era uscito da poco il suo nuovo libro. 

L’uomo di casa è stata una lettura veramente interessante e come vi ho detto nella recensione, sono rimasta molto sorpresa dal finale!

Comunque, l’incontro è stato stimolante e molto divertente. 

Vi riporto qui alcune delle domande che abbiamo fatto nel corso della chiacchierata. 

 

 

Al giorno d’oggi sono sempre meno le cose che crediamo di non sapere delle persone, soprattutto da quando tutti condividono tutto sui social. Il fatto di scoprire che la realtà è diversa da come ci appare è rimasta forse l’unica grande paura di oggi, più ancora della paura del mostro?

In effetti, più della paura dell’assassino, a me interessava appunto la paura dell’ignoto, dello scoprire cose che non avremmo mai immaginato del nostro quotidiano e di chi ci vive accanto. Se avete visto l’anno scorso il film “Perfetti sconosciuti” ricorderete che la frase di lancio era “Ognuno di noi ha tre vite: una pubblica, una privata e una segreta”. Il fatto della condivisione sui social è un falso: i social in realtà aiutano a nascondere, a creare un’identità segreta, ad apparire diversi.Io non volevo raccontare la costruzione di un’identità attraverso i social perché l’hanno già fatto in tanti. Sandra, la mia protagonista, le cose le scopre sul campo, muovendosi da casa. Ancora più del dolore per la perdita del marito la sua sofferenza deriva dalla paura di non riuscire ad avere delel risposte, di non scoprire mai la verità sul marito.

Com’è nata l’idea di questo romanzo?

L’idea si è costruita un po’ alla volta. Prima di tutto è nata la voglia di fare qualcosa di diverso. Io vado tutti gli anni in America, faccio base da mia sorella e poi vado in giro. Amo così tanto quella cittadina che mi sono chiesto se non sarebbe stato bello ambientare una storia lì. La coppia di vicini che c’è nel romanzo, Elisabeth e Jeff, esiste veramente: sono proprio come li ho descritti e aspettavano con molta curiosità l’uscita del libro. 
Sono partito dalla situazione idilliaca di una coppia benestante, in cui però accade qualcosa che va a rompere questa idea di serenità. All’inizio la storia era un po’ diversa, senza la parte che si svolge trentacinque anni prima, che è venuta dopo. 
Inizialmente, pensando alla difficoltà di raccontare un personaggio femminile, avevo chiesto a Marilù Oliva di scriverlo a quattro mani. Pensavo che lei avrebbe potuto scrivere le parti femminili in prima persona, e io tutto il resto. Marilù però si è tirata indietro dicendo che l’idea era mia, e adesso penso che sia stato meglio così. Mi ha comunque fatto notare diverse cose che non andavano. 
Non racconto mai fatti realmente accaduti per non turbare la sensibilità dei parenti delle vittime o di eventuali superstiti, di chi ha subito dei crimini, quindi dovevo inventarmi il cold case del secolo e ho pensato che non c’è nulla di più odioso dei crimini contro i bambini. 
La cosa drammatica è che quando il romanzo era già finito, nel 2015, è uscita una notizia di cronaca simile a quello che io avevo scritto: in Baviera si era svolta una vicenda del genere, per cui è vero che spesso la realtà supera la fantasia. 
Invece nel romanzo che sto scrivendo adesso mi sto ispirando a un fatto di cronaca che mi ha colpito molto, la vicenda di Fortuna, la bambina di Napoli seviziata e poi uccisa: per fortuna siamo ancora capaci di restare sconvolti.

Per uno scrittore uomo, non è facile vestire i panni di un personaggio femminile in modo convincente. Come hai lavorato su questo aspetto?

Dalla notte dei tempi gli uomini cercano di entrare nella psicologia femminile e non ci riescono, per cui diciamo che è stato un lavoro abbastanza impegnativo. Mi sono affidato a un gruppo di lettura tutto al femminile di Bologna, composto da quindici donne, presieduto da un’attivista femminista, Samantha P., con cui mi ha messo in contatto la mia amica scrittrice M. Oliva, e la prima stesura del romanzo l’ho fatta leggere a loro. 
Inizialmente il marito di Sandra moriva in un’altra maniera, in una finta rapina, però lei scopriva solo alla fine che era finta, per cui non restava delusa dalla morte dell’uomo. Dopo una settimana arrivava il nuovo vicino di casa nel quartiere residenziale di Vienna, e tra loro nasceva un interesse. 
Le lettrici mi hanno massacrato, e mi sono reso conto che i tempi in effetti non tornavano. 
Una settimana per piangere tuo marito, e basta? 
Troppo poco. 
Così ho spostato l’azione a sei mesi dopo la morte, e ho cambiato le circostanze dell’omicidio affinché Sandra fosse anche delusa oltre che addolorata. 
Come autore non sono assolutamente geloso di quello che scrivo e chiedo aiuto molto volentieri. Questa è stata la prima volta che mi sono rivolto a un gruppo di lettura, ma anche sugli altri romanzi che ho scritto ho sempre fatto un lavoro di editing per conto mio con Chiara B.M., che è una editor molto brava. Con lei lavoriamo per mesi: mi dà consigli sia stilistici che sui contenuti, che a volte accetto e a volte no, per cui discutiamo a lungo. Ci sono diciotto versioni di questo romanzo, che poi magari differiscono solo per una o due frasi, ma questo è il mio modo di lavorare.

Nel romanzo si parla anche di perdita: Sandra e Devon perdono una il marito e una il padre. Perché reagiscono in modo differente?

Vivono la perdita in maniera diversa. Per Sandra accanto al dolore per la perdita del marito subentra subito, viste le circostanze di questa morte, il terrore di aver vissuto con una persona diversa da quella che ha conosciuto, e di non scoprire mai la verità. 
Per Devon è diverso, perché in lei scatta un meccanismo di negazione: non accetta la morte del padre e ancora meno le dicerie su di lui. La barriera si crea perché madre e figlia non riescono a comunicare tra loro su questo. Il dolore si vive in maniera diversa a seconda dell’età, e spesso non si riesce comunque a comunicarlo anche nell’ambito familiare. Sandra ha un doppio carico, come moglie e come madre.

Sapeva già come sarebbe andato a finire il romanzo fin dal principio?

Quando invento una storia metto dentro solo qualche dato: ambientazione, inizio e fine. 
Tutto il resto viene scrivendo, ma il colpo di scena finale lo metto sempre in tutti i miei libri. 
Per me non è pensabile scrivere una storia senza aver bene presente il finale, che è il piatto forte dei romanzi di genere.

Che strada potrebbe prendere secondo te il giallo in Italia?

In Italia quello del thriller è un campo che lascia ancora degli spazi da esplorare. 
Abbiamo Carrisi che vende tanto all’estero e ha un genere ben definito, di stampo anglosassone ma con un’ambientazione sempre sospesa. Non c’è una scuola precisa, in Italia. Il noir è stato un po’ inflazionato, tant’è che anche Dazieri e Carlotto sono tornati al thriller. 
Io ho voluto scrivere un prodotto molto di genere, anche se non ci ho messo un serial killer o altri aspetti truculenti. Qui non era necessario parlare di violenza. 
Molti autori sono stati lanciati in grande come Mirko Zilahy e Luca D’Andrea, però sono fenomeni isolati: non vedo ancora una strada precisa.

«ognuno ha tre vite, una pubblica, una privata, e una segreta»

Gabriel García Márquez

Romano De Marco_Autore
L'Uomo di casa di Romano De Marco
Red kedi con Romano De Marco

Chiara Gamberale [INCONTRO/17]

Chiara Gamberale [INCONTRO/17]

“E chi saresti tu?” chiese Qualcosa di Troppo.
“Io? Ma se mi stavi chiamando! Chi saresti tu, invece, che ti sei permessa di disturbare la cosa importantissima che non stavo facendo?”
“Come si fa a NON fare un cosa importantissima?”

Qualcosa è la sua nuova avventura, anche dal punto di vista formale e stilistico. Come è nata?

Io cambio sempre. Quello che non cambia sono le mie ossessioni. Tutti i libri di un autore si parlano. Ed è quello che io cerco in uno scrittore. Non mi fido di chi prima scrive un giallo, poi un romanzo d’amore e poi prova con l’auto-fiction: ma qual è la sua vera urgenza? Senza dubbio la mia narrativa ruota attorno ad alcune paure e ogni mio libro è il tentativo di affrontarle da un punto di vista diverso per ricavarne nuove verità.

Ha scelto una forma inedita contaminata con le illustrazioni…

Fin dall’adolescenza coltivavo il desiderio di scrivere qualcosa alla Calvino, un universo completamente immaginato da me, in cui potessi inserire le mie domande. Dopo di che mi sono detta che sarebbe stato bello dialogare con un illustratore. Mi ero innamorata di Tuono Pettinato, della sua vena poetica, grazie a una raccolta in cui c’era anche Zerocalcare. Poi l’ho ritrovato su Internazionale e leggendo Nevermind sulla vita di Kurt Cobain, mi ha davvero strappato il cuore. Così l’ho chiamato e lui si è messo a disposizione. È un vero artista.

Come si è articolata la vostra collaborazione?

Ho iniziato a scrivere pensando alle illustrazioni. Gli ho consegnato il testo e lui l’ha corredato, ma non si è limitato a seguire le mie indicazioni. Essendo anche un autore, ha risposto ad alcune sollecitazioni e ad altre no, per cui è iniziato un dialogo. La scrittura a sua volta si è sintonizzata sulle sue proposte. Ne è venuto fuori qualcosa che, nonostante sia ambientato in un regno che non c’è, affronta problemi umani troppo umani.

In Qualcosa si percepisce la volontà di andare all’essenza, al cuore di quelli che sono i personaggi dei suoi romanzi, a partire dai nomi. Forse l’operazione più difficile per uno scrittore: avere la profondità di un classico, un senso di universalità.

È vero ed è stato faticosissimo perché io ho la testa piena di parole e di pensieri. Mi sveglio la mattina con un’orchestra stonata nella testa. Ho lavorato molto per raggiungere una scrittura che avesse a che fare col classico, cioè con qualcosa in grado di restare. Per questo pensavo a Calvino, a Saint-Exupéry. Non a caso nell’edizione Feltrinelli ho curato la prefazione. E poi Pinocchio: lo adoro. In un corso molto interessante di psicanalisi e letteratura con Stefano Ferrari, si sottolineava quanto lo stile sia terapeutico per l’umore. Per me che sono un tipo ansioso, racchiudere tutta la mia urgenza in uno stile che abbia poche parole e pochi nomi è stata una grandissima sfida dal punto di vista letterario. La protagonista si chiama Qualcosa di Troppo, suo padre il re, Qualcosa di Importante. Solo col loro nome ti ho già detto chi sono.

Uno stile molto diverso da quello di Adesso, il suo precedente romanzo…

Sì, venivo da un testo nevrotico come Adesso, un romanzo sul momento, su cosa diventiamo in un attimo fatale e la scrittura era a servizio di quella brachicardia. E invece Qualcosa è un romanzo su che cosa siamo oggi e sempre’ e la scrittura doveva mettersi a servizio di questo respiro.

In Qualcosa affronta anche il tema della necessità di disconnettersi da una società dove il maggior passatempo dei ragazzi è tuffarsi in Smorfialibro, alias Facebook. Quanto è importante oggi riappropriarsi di sé a prescindere dal sé virtuale?

“Rispondo con questo (e ci mostra il suo cellulare modello basic). Perfino io che non possiedo uno smartphone e cerco di difendermi da questi strumenti, non sono stata indenne dal caderci. Può succedere in tanti modi, persino senza accorgersene. Essendo una persona compulsiva mi sono tenuta a distanza dai social network. Eppure, come raccontavo qualche mese fa in un pezzo per La Stampa ci sono cascata anch’io. Credo in generale sia un problema enorme”.

E questo disagio emerge nel libro.

Sì, in questo romanzo, che è sui nostri sempiterni impedimenti, l’amore e la morte, c’è qualcosa che, a proposito di pieno e di vuoto, ha a che fare proprio con l’oggi, cioè i social network. Questo è un mondo in cui paradossalmente la società sembra venirci incontro rispetto al vuoto. In realtà ci sta dando solo dei falsi amici, dei tranelli. Quante persone dopo la fine di una relazione studiano il profilo Facebook dell’ex partner? Come se si potesse davvero capire qualcosa di una persona da lì. E il rischio è quello che arrivi a convincerti che la tua stessa identità sia quella del tuo profilo virtuale. E cosa accade nei due momenti cruciali della vita, quando muore qualcuno di caro o ci si innamora, nei momenti dunque dei grandi dolori e delle grandi felicità? Se non ti conosci, sono esperienze che ti frantumano e non possono nemmeno arricchirti. Spero di aver dato un allarme con questo romanzo. Senza comunque dimenticare l’ironia.

Una delle soluzioni proposte dal libro può essere quella del silenzio come suggerisce il Cavalier Niente. Oppure, come scriveva in quell’articolo che menzionava, “regalatevi Proust e vi toglierete le ansie del web”. A proposito di tempo perduto e ritrovato…

Esatto. Ero caduta nel vortice del controllare ossessivamente cosa la gente scrivesse di me sul web. Sentivo che c’era un pericolo e mi sono curata con Proust, aiutata dal fatto che la mia vita è divisa in due: quella in cui scrivo in isole fuori dal mondo e anche dalla gente, in cui la connessione funziona malissimo; e quello in cui sono in Italia con le mie relazioni e le mie presentazioni. Il mio rischio è quello di essere sommersa dagli altri, come in un movimento di sistole e diastole, niente o troppo. Ho approfittato questa estate, quando sono stata nell’isola di Milos per scrivere Qualcosa, per iniziare la mia terapia d’urto: leggere i sette volumi della Recherche.

Cosa la spaventa in particolare?

Da piccola passavo ore intere del pomeriggio dal portiere. I miei lavoravano entrambi. E in quei pomeriggi mi annoiavo, avevo paura, mi concentravo. Provavo insomma sentimenti, anche negativi, ma di cui tutti abbiamo bisogno. Ed è nella guardiola di quel portiere che ho scritto il mio primo romanzo. Avevo 7 anni e mezzo: Chiara e Riky e Chiara e Riky crescono, influenzata palesemente da Piccole Donne. A volte mi chiedo: se fossi nata oggi, sarei riuscita a concentrarmi così tanto da iniziare a scrivere? Oppure sarei stata distratta da tutto questo ‘troppo’ che ci circonda? Ecco perché ho scritto questo romanzo in due direzioni, cioè guardando dentro l’essere umano, che è fatto così, e poi all’esterno, con questa società che non lo aiuta. Apparentemente sembra farlo, ma in realtà lo mette più a rischio.

Un messaggio trasversale, ma che può essere ancora più incisivo per i ragazzi. E non è un caso che il ricavato di questo libro andrà a Casa Oz, l’associazione che si occupa dei bambini che incontrano la malattia e delle loro famiglie.

Era la cosa giusta. Da un anno, quando vengo chiamata dalle scuole, anziché presentare il mio libro, vado a fare educazione sentimentale. Penso che noi scrittori abbiamo una missione, politica e culturale. Quindi faccio spegnere loro il cellulare per quelle tre ore, pretendo che abbiano letto il libro – anche tramite fotocopie, non è un problema – ma è necessario, altrimenti risulta una perdita di tempo. E poi giochiamo con i temi del libro. Con Adesso abbiamo fatto un laboratorio sulle paure e sui desideri. Son emersi gli spunti più disparati. Con Qualcosa mi potrò sbizzarrire con un nuovo laboratorio sul vuoto e su come lo si può riempire.

I suoi libri hanno sempre un risvolto pragmatico. Pensiamo a Per dieci minuti, al curriculum sentimentale in Adesso, alle parole illustrate di Qualcosa che sono un autentico monito…

Sono la mia prima paziente. Mi ha fatto sorridere sentire un prete dirmi che in confessione invitava i suoi fedeli a recitare tre Ave Maria e a leggere Per dieci minuti. Ormai è entrato nelle terapie psicanalitiche. È un libro che ha superato i confini della letteratura ed è entrato nella vita vera.

Perché secondo lei?

Perché i lettori hanno sentito che c’era un’esperienza vera dentro. Io l’avevo provato per tutti. Non avevo deciso di scriverne un libro, ma il decimo giorno di quell’esperimento mi sono detta: ‘I lettori hanno condiviso con me tanti loro guai; per una volta ecco una soluzione’.
Chiara Gamberale_Autore
Qualcosa di Chiara Gamberale

Antonella Tomaselli e Massimo Vacchetta [INTERVISTA/16]

Antonella Tomaselli e Massimo Vacchetta [INTERVISTA/16]

Massimo Vacchetta
Buongiorno Massimo, grazie per esser riuscito a ritagliare del tempo per noi. Vorrei iniziare con qualcosa di classico, giusto per prendere un po’ di confidenza. Parlaci un po’ di te.
Vivo in Piemonte, a Novello. Sono un veterinario e quando ho cominciato a lavorare mi son prevalentemente occupato di bovini. Sono da sempre appassionato di natura e animali. Ora gran parte del giorno e della notte la dedico ai ricci, piccoli animali selvatici a rischio di estinzione.
Perché sei diventato un veterinario?
Da ragazzo ero indeciso, volevo fare l’astrofisico, ma mi stuzzicava pure dedicarmi a degli studi d’arte. Però, come si leggerà anche nel libro, prevalse il desiderio di dedicarmi agli animali.
Come mai ti sei dedicato ai ricci?
Proprio per caso. Tutto è cominciato quando ho incontrato Ninna, una riccetta spettinata, che ha mosso qualcosa dentro di me: la compassione. Ninna, inevitabilmente, ha catturato il mio affetto. Mi è stata affidata da un collega: era una cuccioletta di appena 25 grammi, nata da poco e completamente sperduta. Ho fatto il possibile per aiutarla a sopravvivere… All’epoca non sapevo nulla di ricci e ho seguito le indicazioni degli esperti, un po’ il buon senso. Le davo il latte ogni tre ore e tra una “poppata” e l’altra come non innamorarsi di lei? Era bellissima, tenerissima e così indifesa…
Quanto è stato difficile lasciare andare Ninna?
Tantissimo. E’ stata una decisione molto contrastata. Sapevo che ormai era pronta per ritornare in natura e che se la sarebbe cavata, ma non riuscivo a staccarmi. Da una parte mi frenava l’estremo attaccamento a lei, dall’altro un animale selvatico per essere felice deve essere restituito al suo habitat naturale. E io ho scelto la sua felicità. L’ho liberata in un posto bellissimo, che chiamo il «Paradiso», dove avrebbe trovato tutto quello che le serviva. Non l’ho più rivista da allora, ma spero ancora che possa succedere. Chissà…
Cosa vorresti trasmettere al lettore?
La mia passione, il mio entusiasmo, il mio amore per gli animali. In modo che tutti si attivino e tendano una mano per preservare il nostro pianeta. Solo così facendo potremmo salvarci…
Puoi darci qualche consiglio su come trattare i ricci? Io, come sicuramente molti altri, ne trovo alcuni che gironzolano confusi per strada, in periodi dove dovrebbero essere altrove. Come ci si deve comportare?
Se ne vediamo uno di giorno in campo aperto, ha sicuramente bisogno d’aiuto. Se vedete un riccio fermo sulla strada, fermatevi e soccorretelo.
Per informazioni più dettagliate, vi invitiamo qui: 
Facebook Centro Recupero Ricci “La Ninna”
www.lacasadeiricci.org
Raccomando comunque estrema attenzione quando si usano decespugliatori, o quando si bruciano cumuli di rami e foglie in giardino. Inoltre esorto a non usare veleni in agricoltura. Preservare le aree naturali intorno a noi è di fondamentale importanza per la sopravvivenza dei ricci.
Com’è nata l’idea di aprire “La casa dei ricci”?
Per me è stato un percorso inevitabile: mi sono talmente appassionato, tramite Ninna, che ho sentito il bisogno di fare qualcosa per i ricci e per tutta la natura.
Antonella Tomaselli
Buongiorno Antonella, grazie per averci concesso il tempo per questa intervista. Vuoi parlarci un po’ di te?
Sono bergamasca, ma da qualche anno a questa parte vivo quasi sempre in Liguria. In famiglia siamo in tre: io, mio marito e nostro figlio. Più quattro yorkshire terrier. Più il nostro gatto, che non è nostro, ma che ha deciso di “adottarci” 
Questo non è il tuo primo libro. Cosa ti ha spinto a parlare di ricci?
Scrivo storie vere per “Confidenze tra amiche” e ho conosciuto Massimo, il protagonista del libro, quando ho scritto la sua storia per il giornale. Mi piace scrivere di vari argomenti, ma adoro raccontare di animali e di natura: sono la mia passione.
Vedo che i diritti del tuo libro precedente sono stati destinati in beneficenza. Da dove nasce quest’idea di scrivere per aiutare chi ne ha bisogno?
Penso che se ogni persona facesse qualcosa per aiutare gli altri, il mondo sarebbe migliore. Cito una frase del libro “25 grammi di felicità”: “Se ognuno facesse la propria parte le gocce nel mare formerebbero, insieme, oceani e cieli”.
Collaboro con ioleggoconjoy.com, un blog letterario no profit, dalla parte degli animali, che accoglie scritti e pubblica libri a sostegno di associazioni che operano per i diritti degli esseri viventi più deboli (umani compresi). Il mio libro precedente è appunto stato pubblicato da ioleggoconjoy.
Cosa pensi di Ninna e di tutti i suoi fratelli?
Mentre scrivevo di lei e degli altri mi ci sono affezionata tantissimo. Me li vedevo proprio mentre vivevano le loro storie. Sono così teneri e indifesi! Irresistibili! Mi sono commossa per ogni liberazione in natura. 
Cosa vorresti trasmettere a tutti i lettori che leggono e leggeranno “25 grammi di felicità”?
Mi è piaciuto scrivere di Massimo e dei suoi riccetti, io e lui siamo ben sintonizzati e avvertiamo le stesse emozioni. E sono proprio queste ultime che ho cercato di trasmettere. Nel libro ci sono brani molto toccanti e altri, al contrario, divertenti, ma da tutti traspaiono sentimenti buoni e delicati. Ecco, spero che queste sensazioni arrivino a chi legge e leggerà. Insieme all’attenzione, all’amore e al rispetto per questi affascinanti ricci, e per tutta la natura che ci circonda. 
25 grammi di felicità di Massimo Vacchetta e Antonella Tomaselli