Mariafrancesca Venturo [INTERVISTA/19]

Mariafrancesca Venturo [INTERVISTA/19]

«Mi mettono tristezza, sai? Non saprei dirti il perchè. Ma se non altro per una volta puoi vestirti elegante. Sarannodue anni che ho questo vestito nell’armadio e non vedevo l’ora di tirarlo fuori. Dici che è troppo? Forse sì, mache ci importa? Io sono contenta di indossarlo, non troviche mi stia un incanto? Magari mi porta fortuna e mi fatrovare un fidanzato. Se aspetto l’occasione giusta finisceche non lo indosso più. Mia nonna diceva: le occasionite le devi inventare. Cara mia, le nonne sanno sempre dite le devi inventare. Cara mia, le nonne sanno sempre dicosa parlano quando parlano. »

Buongiorno Mariafrancesca, grazie per esser riuscita a ritagliarti del tempo per noi. 
Ieri è uscito il tuo nuovo libro, come ti senti? 

Buongiorno a voi, scrivere un romanzo e vederlo pubblicato da una grande casa editrice come Longanesi è un gran privilegio e sicuramente la gioia e l’attesa sono alte ma dal momento che lo vedi sugli scaffali della libreria capisci che devi lasciarlo andare, che non è più un lavoro solo tuo e di chi con te ci ha lavorato, tutto quello che accadrà a partire da adesso è un compito che spetta giustamente ai lettori. Sono molto curiosa di scoprire come verrà accolto e quali e quante interpretazioni se ne faranno. Il lavoro creativo non si fa mai da soli.

Dopo tanti lavori che hai fatto, come mai hai deciso di diventare insegnante? Soprattutto, quanto è precaria come vita?

Io sono nata in una famiglia di insegnanti: mia madre, mio padre, le mie nonne, gran parte delle mie zie sono state insegnanti e forse un certo condizionamento c’è stato.

Però una certa curiosità è rimasta. Mi sono sempre chiesta: come ho fatto ad imparare? Come sono riuscita ad ottenere i miei risultati? Mi rendo conto che il contributo di alcuni insegnanti nella mia vita sia stato fondamentali.

La scuola offre a tutti la grande possibilità di mettersi in gioco, indagare i propri talenti e di conoscere il mondo attraverso di essi e a saperla sfruttare fino in fondo può essere un’esperienza meravigliosa.

Se poi hai la fortuna di incontrare insegnanti speciali come è capitato a me e per speciali intendo persone con una particolare capacità di ascolto, ci si rende facilmente conto di quanto sia importante questo ruolo nella vita di una persona.

Provengo da una famiglia numerosa e per avere un po’ di autonomia ho sempre lavorato: ho cominciato dal teatro e sono arrivata a scuola.

Ora sono una maestra di ruolo ma la vita da precaria con il telefono in mano pronta ad aspettare la chiamata di una scuola è durata molti anni.

Anche tu, come Carolina, la mattina ti svegli presto per poterti rendere impeccabile? 

Certamente. Arrivare a scuola con un aspetto gradevole anche se nella sua semplicità, lo considero una forma di rispetto nei confronti di chi lavora insieme a me a cominciare dalle bambine e dai bambini.

Come ti è venuta l’idea per questo libro? 

L’idea del libro è arrivata quando ero ancora una maestra supplente. Ho vissuto sulla mia pelle le conseguenze della burocrazia fatta di decreti, punteggi e calendari e ho conosciuto tante colleghe e colleghi pronti a mille sacrifici pur di lavorare a scuola. Capita spesso che il contratto a tempo indeterminato diventi l’ultima delle preoccupazioni quando sei coinvolto nelle storie delle bambine e dei bambini e la voglia di sentirsi d’aiuto sostituisce in molti casi l’ansia per il traguardo personale, almeno fino a quando non suona l’ultima campanella dell’anno. Credo che raccontare questa storia, anche attraverso un romanzo, possa avere la sua importanza.

Cosa vorresti trasmettere al lettore?

Penso che quando la vita ci sfida, che lo abbiamo scelto oppure no, è importante andare avanti pensando a una possibilità di crescita, cercando di perfezionare il passo un po’ alla volta come si fa quando si cammina in salita, correre spediti verso la meta senza andare in profondità non porta quasi mai a grandi risultati.

La protagonista del romanzo, Carolina, inizialmente cerca di non farsi coinvolgere dalle storie dei suoi alunni, anzi, all’inizio fa di tutto per non affezionarsi troppo, per paura di soffrire, ma così perde una parte molto importante del suo lavoro, quella che collega la sua scelta lavorativa alle proprie responsabilità, un gancio importantissimo fatto di motivazione e passione senza il quale un insegnante è inutile.

Nelle tue classi, cerchi di far leggere i ragazzi con qualcosa di attuale? O preferisci attenerti ai classici?

Generalmente non cerco di far leggere nulla. Il mio obiettivo è far si che i bambini si avvicinino autonomamente alle letture che più gli assomigliano e per farlo nel modo migliore è indispensabile porsi in ascolto.

In classe facciamo in modo di avere scaffali ben forniti di tutti i generi di libri, dalle fiabe alle biografie, dai testi scientifici ai romanzi fino ai più importanti dizionari e con le mie colleghe cerchiamo di alimentare curiosità, invitiamo scrittori in classe, organizziamo visite nelle biblioteche e nelle librerie di quartiere, facciamo tante domande e affrontiamo i temi più vari per capire dove i bambini vadano a cercare le risposte.

La libertà di scelta nasce prima di tutto dalla conoscenza e dal rispetto.

Poi amo le letture ad alta voce e spesso in classe leggo. Lo consideriamo un bel regalo e lo faccio non per convincere i bambini che il libro che ho scelto io sia per forza bello ma per mostrargli la mia voglia di leggere, la mia personale passione per il libri e le storie.

Cosa ne pensi della lettura digitale? 

Credo, come tanti, che ci siano pro e contro. Da un lato il libro digitale ci consente di risparmiare carta e di portare con noi, in un unico dispositivo, una gran quantità di testi ma dall’altra ci fa perdere il contatto con la sua consistenza fatta di pagine, inchiostro, profumo, una consistenza che ci ricorda una certa incorruttibilità nel tempo. Lo hai letto, forse dopo un po’ lo dimentichi, ma lui rimane lì, in attesa di essere sfogliato un’altra volta, a portata di mano come un pezzo di memoria indelebile con le sue pagine fruscianti che puoi toccare tutte in una volta.

L’e-book mi dà l’idea che possa svanire improvvisamente, una sensazione di precarietà che non so decifrare.

Insomma, ancora non sono riuscita a leggere un libro digitale.

Stai già pensando ad un nuovo libro o preferisci goderti ancora per un po’ questo?  

Sto prendendo appunti, un’idea c’è.

Mariafrancesca Venturo_Autor
Speriamo che il mondo mi chiami di Mariafrancesca Venturo

Mirko Zilahy [INCONTRO/18]

Mirko Zilahy [INCONTRO/18]

Gli occhi fanno cilecca, pieni di lacrime e sudore, ma la testa torna lucida man mano che il tempo scorre. Il cuoio che adesso ha sulla faccia aderisce a quello che gli chiude la bocca. Ma questo ha una forma…come una maschera. Sul davanti è allungata, è aperta, quasi fosse…Signore Pietà. …per una bestia. Cristo Pietà. Quattro passi ed eccolo ancora.Signore, Pietà. Non riesce a metterlo a fuoco. Lo sfavillio delle candele deforma le proporzioni dell’ambiente e quella cosa resta in penombra. Ma lui, Frà Girolamo, lo capisce subito. Li scorge lo stesso, li vede scintillare in mezzo a una faccia irreale. Sono gli occhi che lo paralizzano. In quegli occhi c’è qualcosa che non va.

Gli incontri belli, fatti in posti particolari ed accompagnati con una bella birra. 

Mirko Zilahy lo rincorro da un pò di tempo, all’incirca da quando ho avuto modo di conoscere Romano De Marco per l’uscita di “L’uomo di casa“. Quando uno scrittore parla bene di un suo collega, drizzo le antenne e sondo il terreno. 

È così che si uccide, La forma del buio, Così crudele è la fine.
Trilogia che conta 1250 pagine ed è tradotta in tutta Europa (da poco in spagna è uscito il secondo). L’associazione con il destino della Rowling è stato fulmineo perchè anche il suo talento è stato scoperto per caso anche se, le cose sono andate diversamente. 
Era fermo, il lavoro non girava e qualcosa doveva fare così, spinto dalla stanchezza e dall’erosione dei nervi per il futuro, mandò le prime ed uniche 60 pagine scritte ad un’amica che faceva l’agente letteraria. La risposta fu quasi fulminea ma come poteva vendere un libro che oggettivamente, non aveva ancora scritto? Eppure, così successe. 
Con ben 100 pagine, riuscirono a piazzare È così che si uccide. 

Mirko è una sagoma. 
Sicuramente non un’adone ma irradia un certo magnetismo che strega chi lo ascolta. Anche dopo aver tagliato i capelli, anche se sostiene di esser prolisso, conferma che in ogni pagina scritta è stato attento ad ogni dettaglio (motivo per cui è lento nello scrivere ma, glielo concediamo visto i risultati). 

Ed è uno dei motivi per cui mi sono messo a scrivere thriller, perché era il momento di riportare il thriller a una forma che fosse più simile a quella dei maestri che l’hanno inventata.

Una cosa che mi ha particolarmente colpito, è che ascolta. 
Ho incontrato molti Autori e devo ammettere che pochi si interessano veramente dell’opinione di chi è lì per intervistarli. Lui invece, chiede e se provi a deviare su un’argomento differente, non molla. 
Legge anche tutte le recensioni che compaio su Amazon, anche se non è sempre una passeggiata dato che qualcuna, sembra inventata a tavolino. 

Quello che ho percepito, durante l’aperitivo, è che gli piace moltissimo quello che fa. 
Non è una cosa così scontata, alcune persone non danno peso al fatto che stanno presentando un loro libro mentre altre, reagiscono in modo talmente tanto spropositato che risultano finti ma, in questo caso, traspira soddisfazione da ogni parola e anche se in ogni libro lascia un pezzo di sè, anche se parla di morte e oscurità, alla fine gli occhi rivelano tutto. 

Sono grata alla Longanesi per avermi dato la possibilità di incontrarlo e data l’indiscrezione fatta dopo una meravigliosa birra (parliamo di quelle del birrificio di Lambrate, roba di alto spessore), spero di incontrarlo nuovamente per… 

Mirko Zilahy_Autor
Così crudele è la fine di Mirko Zilahy

Chiara Gamberale [INCONTRO/17]

Chiara Gamberale [INCONTRO/17]

“E chi saresti tu?” chiese Qualcosa di Troppo.
“Io? Ma se mi stavi chiamando! Chi saresti tu, invece, che ti sei permessa di disturbare la cosa importantissima che non stavo facendo?”
“Come si fa a NON fare un cosa importantissima?”

Qualcosa è la sua nuova avventura, anche dal punto di vista formale e stilistico. Come è nata?

Io cambio sempre. Quello che non cambia sono le mie ossessioni. Tutti i libri di un autore si parlano. Ed è quello che io cerco in uno scrittore. Non mi fido di chi prima scrive un giallo, poi un romanzo d’amore e poi prova con l’auto-fiction: ma qual è la sua vera urgenza? Senza dubbio la mia narrativa ruota attorno ad alcune paure e ogni mio libro è il tentativo di affrontarle da un punto di vista diverso per ricavarne nuove verità.

Ha scelto una forma inedita contaminata con le illustrazioni…

Fin dall’adolescenza coltivavo il desiderio di scrivere qualcosa alla Calvino, un universo completamente immaginato da me, in cui potessi inserire le mie domande. Dopo di che mi sono detta che sarebbe stato bello dialogare con un illustratore. Mi ero innamorata di Tuono Pettinato, della sua vena poetica, grazie a una raccolta in cui c’era anche Zerocalcare. Poi l’ho ritrovato su Internazionale e leggendo Nevermind sulla vita di Kurt Cobain, mi ha davvero strappato il cuore. Così l’ho chiamato e lui si è messo a disposizione. È un vero artista.

Come si è articolata la vostra collaborazione?

Ho iniziato a scrivere pensando alle illustrazioni. Gli ho consegnato il testo e lui l’ha corredato, ma non si è limitato a seguire le mie indicazioni. Essendo anche un autore, ha risposto ad alcune sollecitazioni e ad altre no, per cui è iniziato un dialogo. La scrittura a sua volta si è sintonizzata sulle sue proposte. Ne è venuto fuori qualcosa che, nonostante sia ambientato in un regno che non c’è, affronta problemi umani troppo umani.

In Qualcosa si percepisce la volontà di andare all’essenza, al cuore di quelli che sono i personaggi dei suoi romanzi, a partire dai nomi. Forse l’operazione più difficile per uno scrittore: avere la profondità di un classico, un senso di universalità.

È vero ed è stato faticosissimo perché io ho la testa piena di parole e di pensieri. Mi sveglio la mattina con un’orchestra stonata nella testa. Ho lavorato molto per raggiungere una scrittura che avesse a che fare col classico, cioè con qualcosa in grado di restare. Per questo pensavo a Calvino, a Saint-Exupéry. Non a caso nell’edizione Feltrinelli ho curato la prefazione. E poi Pinocchio: lo adoro. In un corso molto interessante di psicanalisi e letteratura con Stefano Ferrari, si sottolineava quanto lo stile sia terapeutico per l’umore. Per me che sono un tipo ansioso, racchiudere tutta la mia urgenza in uno stile che abbia poche parole e pochi nomi è stata una grandissima sfida dal punto di vista letterario. La protagonista si chiama Qualcosa di Troppo, suo padre il re, Qualcosa di Importante. Solo col loro nome ti ho già detto chi sono.

Uno stile molto diverso da quello di Adesso, il suo precedente romanzo…

Sì, venivo da un testo nevrotico come Adesso, un romanzo sul momento, su cosa diventiamo in un attimo fatale e la scrittura era a servizio di quella brachicardia. E invece Qualcosa è un romanzo su che cosa siamo oggi e sempre’ e la scrittura doveva mettersi a servizio di questo respiro.

In Qualcosa affronta anche il tema della necessità di disconnettersi da una società dove il maggior passatempo dei ragazzi è tuffarsi in Smorfialibro, alias Facebook. Quanto è importante oggi riappropriarsi di sé a prescindere dal sé virtuale?

“Rispondo con questo (e ci mostra il suo cellulare modello basic). Perfino io che non possiedo uno smartphone e cerco di difendermi da questi strumenti, non sono stata indenne dal caderci. Può succedere in tanti modi, persino senza accorgersene. Essendo una persona compulsiva mi sono tenuta a distanza dai social network. Eppure, come raccontavo qualche mese fa in un pezzo per La Stampa ci sono cascata anch’io. Credo in generale sia un problema enorme”.

E questo disagio emerge nel libro.

Sì, in questo romanzo, che è sui nostri sempiterni impedimenti, l’amore e la morte, c’è qualcosa che, a proposito di pieno e di vuoto, ha a che fare proprio con l’oggi, cioè i social network. Questo è un mondo in cui paradossalmente la società sembra venirci incontro rispetto al vuoto. In realtà ci sta dando solo dei falsi amici, dei tranelli. Quante persone dopo la fine di una relazione studiano il profilo Facebook dell’ex partner? Come se si potesse davvero capire qualcosa di una persona da lì. E il rischio è quello che arrivi a convincerti che la tua stessa identità sia quella del tuo profilo virtuale. E cosa accade nei due momenti cruciali della vita, quando muore qualcuno di caro o ci si innamora, nei momenti dunque dei grandi dolori e delle grandi felicità? Se non ti conosci, sono esperienze che ti frantumano e non possono nemmeno arricchirti. Spero di aver dato un allarme con questo romanzo. Senza comunque dimenticare l’ironia.

Una delle soluzioni proposte dal libro può essere quella del silenzio come suggerisce il Cavalier Niente. Oppure, come scriveva in quell’articolo che menzionava, “regalatevi Proust e vi toglierete le ansie del web”. A proposito di tempo perduto e ritrovato…

Esatto. Ero caduta nel vortice del controllare ossessivamente cosa la gente scrivesse di me sul web. Sentivo che c’era un pericolo e mi sono curata con Proust, aiutata dal fatto che la mia vita è divisa in due: quella in cui scrivo in isole fuori dal mondo e anche dalla gente, in cui la connessione funziona malissimo; e quello in cui sono in Italia con le mie relazioni e le mie presentazioni. Il mio rischio è quello di essere sommersa dagli altri, come in un movimento di sistole e diastole, niente o troppo. Ho approfittato questa estate, quando sono stata nell’isola di Milos per scrivere Qualcosa, per iniziare la mia terapia d’urto: leggere i sette volumi della Recherche.

Cosa la spaventa in particolare?

Da piccola passavo ore intere del pomeriggio dal portiere. I miei lavoravano entrambi. E in quei pomeriggi mi annoiavo, avevo paura, mi concentravo. Provavo insomma sentimenti, anche negativi, ma di cui tutti abbiamo bisogno. Ed è nella guardiola di quel portiere che ho scritto il mio primo romanzo. Avevo 7 anni e mezzo: Chiara e Riky e Chiara e Riky crescono, influenzata palesemente da Piccole Donne. A volte mi chiedo: se fossi nata oggi, sarei riuscita a concentrarmi così tanto da iniziare a scrivere? Oppure sarei stata distratta da tutto questo ‘troppo’ che ci circonda? Ecco perché ho scritto questo romanzo in due direzioni, cioè guardando dentro l’essere umano, che è fatto così, e poi all’esterno, con questa società che non lo aiuta. Apparentemente sembra farlo, ma in realtà lo mette più a rischio.

Un messaggio trasversale, ma che può essere ancora più incisivo per i ragazzi. E non è un caso che il ricavato di questo libro andrà a Casa Oz, l’associazione che si occupa dei bambini che incontrano la malattia e delle loro famiglie.

Era la cosa giusta. Da un anno, quando vengo chiamata dalle scuole, anziché presentare il mio libro, vado a fare educazione sentimentale. Penso che noi scrittori abbiamo una missione, politica e culturale. Quindi faccio spegnere loro il cellulare per quelle tre ore, pretendo che abbiano letto il libro – anche tramite fotocopie, non è un problema – ma è necessario, altrimenti risulta una perdita di tempo. E poi giochiamo con i temi del libro. Con Adesso abbiamo fatto un laboratorio sulle paure e sui desideri. Son emersi gli spunti più disparati. Con Qualcosa mi potrò sbizzarrire con un nuovo laboratorio sul vuoto e su come lo si può riempire.

I suoi libri hanno sempre un risvolto pragmatico. Pensiamo a Per dieci minuti, al curriculum sentimentale in Adesso, alle parole illustrate di Qualcosa che sono un autentico monito…

Sono la mia prima paziente. Mi ha fatto sorridere sentire un prete dirmi che in confessione invitava i suoi fedeli a recitare tre Ave Maria e a leggere Per dieci minuti. Ormai è entrato nelle terapie psicanalitiche. È un libro che ha superato i confini della letteratura ed è entrato nella vita vera.

Perché secondo lei?

Perché i lettori hanno sentito che c’era un’esperienza vera dentro. Io l’avevo provato per tutti. Non avevo deciso di scriverne un libro, ma il decimo giorno di quell’esperimento mi sono detta: ‘I lettori hanno condiviso con me tanti loro guai; per una volta ecco una soluzione’.
Chiara Gamberale_Autore
Qualcosa di Chiara Gamberale
Ildefonso Falcones [INCONTRO/16]

Ildefonso Falcones [INCONTRO/16]

Ildefonso Falcones [INCONTRO/16]

Red Kedi con Ildefonso Falcones
Sapete chi è l’uomo vicino a me?
No?
Ma come?!
Eddai, è facile… lui è Idefonso!
Su dai, lo conoscete bene. Avrete sicuramente visto i suoi mat… ehm, libri in libreria. “La regina scalza”, “La cattedrale del mare” ed il più recente “Gli eredi della terra” (ovvero il seguito della Cattedrale). 

Il 10 ottobre ho avuto l’onore ed il piacere di andare direttamente da lui a parlargli e ragazzi, che spasso! Voi però non potete immaginare l’epopea per arrivare all’incontro sana e salva…. ma adesso vi spiego (ovvio, no??)

Prima di tutto, devo confessarmi.

Non avevo mai letto nulla di Idefonso e quindi, quando mi è stato proposto di andare all’incontro, dentro di me è partito il classico dibattito. 

“oh, figo! Andiamoci!”
“Si, ok.. ma chi è sto tipo?”
“Boh, lo scopriremo in questi giorni!” 
“L’evento è tra tre giorni, come possiamo arrivare preparati?” 
“Stufoso che sei! Non bisogna essere delle cime per documentarsi un pò” 
“Eh, non ci vorrà na cima, però novecento pagine mica riusciamo a leggerle!” 
“Quindi? Tommaso già lo sa. Mica è scritto nel contratto… e poi, vuoi mettere? Possiamo conoscerlo!” 
“Si, bello. Se poi scopriamo che è un buzzurro antipatico?” 
“Ma perchè tutti gli sconosciuti devo esser classificati così?” 
“Perchè sono realistico..” 
“Stufoso sei! Noi ci andremo. Punto” 
“Ma no! Che figura ci facciamo poi?” 
“Figura con chi? Conosciamo almeno la metà dei partecipanti” 
“Appunto. No, non ci andiamo!” 
“Contaci…”

Diciamo che solitamente, ho Mimì e Cocò che battibeccano nella testa ma giovedì sera, dopo aver bevuto un paio di birre e aver brindato con un bicchierino di non so che cosa, la decisione è venuta da sè…. Non avevo contato però un piccolo dettaglio. 

Solitamente entro in ufficio alle 9 ed esco alle 18. 

Facendo la pendolare, non ho grossi problemi ma prendere un’ora di permesso, mi sembrava un pò ridicolo… così, chiedo candidamente a Fidanzato di alzarsi un’ora prima per essere in ufficio ad un’orario decente. Ovviamente lui, che mi supporta sempre, ha accolto con entusiasmo la cosa! 

“Moruccio, non è che caso, lunedì riusciamo ad uscire un pò prima da casa?”
“… quanto prima?”
“Ehm… un’oretta…”
“Che cav… Chi devi incontrare?”
“Uno scrittore”
“Ovviamente…”

Io so di avere un Fidanzato magnifico. Infatti sono arrivata corretta in ufficio, per poter uscire prima ma lo sapete vero, che la sfiga è la mia ombra?
No?
Strano!
Perchè ovviamente, alle 16.50 spaccate, arriva la chiamata disperata di uno a cui devo sistemare la vita. Mica robina veloce da nemmeno due minuti di chiamata! Quasi venti minuti di puro sclero e conseguente ritardo. Ovvio. 

Ovvio anche che io sapevo dove andare, eppure mi sono persa comunque. 

Dovevo recarmi in albergo e non uno piccino ed insulso inculato chissà dove ma all’Hotel Principe di Savoia che per chi non lo sapesse è grande e grosso! Eppure… 

Però, anche se con del ritardo, non ho interrotto nulla perchè tutti erano ancora a prendere il caffè.

Che culo. 

Credo che Idefolso non fosse stato “preparato” alla quantità di ragazze. 

Eravamo in sette su otto “intervistatori” ma dopo un secondo di sorpresa… ragazzi, che tipo! Non bello, per me ormai è troppo maturo ma i modi… Non potete capire! 

Tralasciando il fatto che sentirlo parlare in spagnolo, per me è na roba che non posso nemmeno spiegarvi ma è stato gioviale, sempre sorridente e premuroso (soprattutto con Elisa che aveva una tosse micidiale!).

Mimì e Cocò sono tornati a farsi sentire, tanto per non farmi sentire sola ma sappiate che qualche battutaccia è venuta fuori anche tra alcune di noi, senza farci sentire (troppo) dal resto dei partecipanti! 

Sono felice di esserci andata. 

Mi sono fatta conquistare dalle parole di Ildefonso e mi è nata quella voglia sincera di scoprire cosa succederà al protagonista Hugo. 

Qui sotto vi riporto parte dell’intervista che è stata registrata e trascritta da Elisa (per averla completa, ovviamente dovrete passare da lei su Devilishly Stylish).

*non sono solita riportare le interviste degli altri ma in questo caso ho dovuto fare un’eccezione. Elisa è sempre molto accurane in queste cose e l’ammiro molto quindi, tutto il merito va a lei!

Cosa succede quando si torna a parlare di un mondo che ai lettori è piaciuto così tanto? 

Si avverte molto la pressione di dover piacere tanto quanto la prima volta?

No, perché non credo sia possibile lavorare sotto una simile pressione, è impossibile. 
Non si può pretendere sempre di superare i record già raggiunti. 
Bisogna dedicarsi anima e corpo a ogni nuovo progetto, essere soddisfatti di quello che si è fatto; poi, se il nuovo progetto avrà lo stesso successo del precedente andrà benissimo, altrimenti pazienza. 
Se poi andrà meglio, sarà meraviglioso. 
Bisogna assolutamente dimenticarsi della pressione. 
Io ho lavorato trentacinque anni come avvocato e ho imparato qualcosa da questo mestiere: puoi vincere un primo processo, poi un secondo e un terzo, ma prima o poi arriverà una causa che perderai, perché non si può vincere sempre. 
Devi essere in grado di incassare anche una sconfitta, quando sai di aver dato comunque il meglio di te stesso.

Perché è difficile oggi trovare dei romanzi basati come i suoi su principi come impegno, volontà, bontà? Pensa prima ai principi su cui costruire la storia o viceversa?

I principi illuminano tutto il romanzo. I miei personaggi non potrebbero funzionare secondo quei  principi  che contribuiscono a creare una maggiore empatia da parte del lettore. È normale che i personaggi abbiano in sé determinate virtù come essere leali, lavorare per la famiglia e i figli, lottare per le ingiustizie, tutte cose che dobbiamo affrontare anche noi nella nostra quotidianità, ricordandoci però che i mali estremi contro cui si ritrovano a lottare i protagonisti non sono certo gli stessi con cui dobbiamo fare i conti noi oggi. 
Trasferire tutte queste qualità umane in una trama è quello che io penso di fare, e non credo che potrei inventare personaggi con qualità diverse, o scrivere storie con meccanismi differenti, ma non credo nemmeno che susciterebbero lo stesso tipo di interesse in chi legge. 
Penso che la maggior parte dei lettori provi una maggiore empatia per i personaggi che agiscono secondo sani principi, soprattutto se sono sfortunati.

Sarebbe in grado di ritrovare nella Barcellona contemporanea i valori e i principi su cui costruire i suoi personaggi?

Sì, credo, di sì. Barcellona è una grande città, come Milano.
La trama fittizia del romanzo storico si potrebbe adattare anche al ventunesimo secolo, magari lasciando perdere le carceri che oggi non sono più come quelle che ho descritto nel quattordicesimo secolo, ma anche oggi esistono delle forme di schiavitù. Io parlo di passioni umane, d’amore, di sesso, di vendetta e di sentimenti, e tutte queste cose sono sempre le stesse anche oggi,  anche se i principi del lavoro, dell’impegno, e della lotta oggi si stanno perdendo un poco. Nei giovani la necessità di lavorare e d’impegnarsi sembra aver lasciato il posto ad atteggiamenti diversi, come aspirare a creare una “app” da vendere a una società informatica per una cifra da capogiro, risolvendo così la propria vita: ma questo succede a pochissimi, mentre tutti gli altri devono comunque rimboccarsi le maniche e lavorare.

Ha mai pensato di ambientare un romanzo nell’epoca contemporanea?

Sì, ne ho anche scritti, ma sembra che nessuno li voglia. Nel corso della mia vita ho scritto diversi romanzi contemporanei e ho anche cercato di venderli, ma senza risultato, così ho deciso di provare col romanzo storico. Ci sono voluti comunque tre anni per trovare una casa editrice per La cattedrale del mare. In quel periodo avevo scritto un altro romanzo, che ho proposto poi all’editore, ma non c’è stato nessun interesse da parte sua. Visto che a me piacciono il romanzo storico e la casa editrice, e che piaccio al pubblico, non vedo più motivo per incaponirmi a scrivere romanzi contemporanei che non interesserebbero a nessuno.

Ha mai pensato di ambientare un romanzo in Italia o le piacerebbe? E se sì, in quale periodo storico?

Mi piacerebbe, e credo che questo piacerebbe molto anche al mio editore italiano,  ma ho due problemi: il primo è che ci sono già ottimi romanzieri storici italiani, che conoscono il paese meglio di me, e il secondo è che io lavoro con una grande quantità di documentazione, consultando fino a duecento libri per ogni romanzo, spesso scritti in uno spagnolo ormai desueto, ma non conoscendo l’italiano difficilmente potrei accedere alle informazioni contenute nei vostri libri, soprattutto se scritti in italiano antico. Comunque non escludo niente: magari potrei farmi aiutare da qualcuno nella fase di documentazione.

Il suo lavoro di avvocato incide su o influenza in qualche modo la sua scrittura?

Quasi per niente. Certo, mi ha fatto conoscere tante persone con i loro diversi problemi, ma la professione d’avvocato è estremamente pragmatica, lui deve far prevalere gli interessi del suo cliente su quelli degli avversari. La professione dello scrittore invece è estremamente creativa,  diritto e letteratura sono due mondi diametralmente opposti e i linguaggi non coincidono: è impensabile scrivere un romanzo nello stile usato dagli avvocati per rivolgersi ai giudici. La formazione da avvocato forse mi è tornata utile come metodologia, riguardo alla consultazione e alla ricerca.

Ultima domanda: negli ultimi anni sono esplosi molti “baby scrittori”, persone che prima dei vent’anni hanno già pubblicato un bestseller e sono diventati famosi. Quanto ha influito positivamente in lei il fatto di pubblicare per la prima volta non più giovanissimo, quindi con un’altra testa, un’altra maturità? Cosa sarebbe stato diverso se avesse ottenuto prima la fama del suo primo romanzo?

Forse, se avessi avuto successo con La cattedrale del mare a vent’anni non avrei scritto altri romanzi. Più che uno scrittore tardivo, io sono stato uno che ha pubblicato tardi, perché in realtà scrivevo da sempre. Sicuramente, la stabilità emotiva che avevo a quarantasette anni, con una famiglia e quattro figli e una carriera da avvocato ben avviata, mi hanno fatto capire che come scrittore avevo una libertà totale: potevo farlo oppure no, perché il mio futuro non dipendeva da quello. Del resto, vediamo cosa succede a persone che hanno successo molto presto, come i calciatori: a volte perdono un po’ la bussola di fronte al successo.
Io mi ritengo soddisfatto per come sono andate le cose, che poi a 47 anni non ero poi così vecchio … adesso ne ho 57 e spero che me ne restino un bel po’ ancora da vivere!

Barcellona è in preda al terrore e ognuno pensa ai propri interessi

Gli eredi della terra di Ildefonso Falcones
Foto gruppo blogger presenti durante Ildefonso Falcones

Maurizio Maggi [INTERVISTA]

Maurizio Maggi [INTERVISTA]

Buongiorno Maurizio, grazie per avermi concesso questa possibilità. 
Grazie a te, dell’opportunità di parlare del mio libro. 
Partiamo con qualcosa di classico perché come ben sai, siamo tutti molto curiosi… io per prima. L’enigma dei ghiacci, com’è nata l’idea?
Tutto è partito dalla scoperta di un luogo assurdo come il Vostok. Un bacino di acqua temperata grande come la Calabria, nato quando l’Antartide era ancora una foresta lussureggiante e poi coperto da quasi quattromila metri di ghiaccio, e da allora isolato, potenzialmente ricco di forme di vita estinte in superficie da milioni di anni: non ti fa sognare? Facile immaginare intrighi e scontri d’interessi per scoprire i segreti del Vostok, e in effetti il romanzo è questo, ma non solo. La vita laggiù è fatta di batteri e al massimo di qualche piccolo pesce, ma immaginiamo per un attimo una vita senziente acquattata sul fondo, al buio, in attesa da prima che l’Uomo esistesse: cosa penserebbe di noi? Forse non gli importerebbe nulla dell’euro o del petrolio e vedrebbe la Terra per quello che è: una nave spaziale che naviga in un vuoto immenso, freddo e inospitale, con a bordo sette miliardi di passeggeri, egoisti e rissosi, impegnati a sprecare la loro breve vita -un tempo insignificante per chi ê sul fondo di quel lago dal Miocene- sgomitando per guadagnare spazio e distruggendo un po’ alla volta lo scafo che li sostiene. Non c’è nulla di fantascientifico nel mio libro, sia chiaro, ma questo è un punto di vista che, al momento dell’impostazione del lavoro, mi ha aiutato a costruire la trama e le motivazioni dei personaggi, e il centro di gravità attorno al quale ruota il romanzo: il concetto di vita. 
Non è scontato e non è lo stesso per tutti. Gli eroi classici dell’avventura sono pronti a morire per qualcosa. Io volevo che i miei si chiedessero: per cosa vale la pena vivere?
Ho visto che hai viaggiato molto. Posti lontani, esotici e ricchi di storie affascinanti… quante di quelle esperienze vissute hanno influito sul suo libro?
Più dei luoghi, hanno influito le persone e il loro modo di rapportarsi ai luoghi. Abitare, per noi umani, significa impadronirsi di un luogo, in profondità, come farebbe un rampicante invasivo. C’é qualcosa di struggente, in questa manifestazione di attaccamento alla vita, ma anche di potenzialmente pericoloso. L’ho imparato nel mio lavoro in giro per il mondo e credo che se ne vedano le tracce nel romanzo. Ma i viaggi mi hanno lasciato anche altro.
Anni fa visitando un museo dalle parti di Wroclaw, conobbi un geologo dell’università locale. M’invitò nel suo piccolo ufficio dove teneva gli strumenti di misura che usava ogni giorno, la Polonia era appena entrata nella UE e lui era entusiasta di conoscere ricercatori occidentali. Magro e con una giacca di almeno una misura di troppo, sembrava Adrien Brody nel Pianista. Ero vestito leggero ma indossavo più soldi di quelli che lui guadagnava in sei mesi. Eppure quelli occhi che brillavano mentre mi mostrava con orgoglio il suo unico strumento Made in Germany, me li ricordo ancora. Pensa, mi è venuto in mente adesso, durante l’intervista: Mikhail, quando soppesa il sestante e pronuncia ad alta voce il nome del fabbricante tedesco, è lui, è quel ricercatore polacco. Non ricordo come si chiamasse, incontravo tanta gente all’epoca, ma certe cose ti rimangono dentro.
La stesura dell’enigma dei ghiacci è stata lunga e tortuosa? Oppure le parole sono uscite veloci come un fiume in piena?
Trovo impegnativo delineare la trama (intrecci, tempistiche con cui il lettore scopre certe cose, coerenza delle agende dei vari protagonisti), ma una volta fatto questo, scrivere è abbastanza facile. Al punto che spesso non resisto e comincio prima che la trama sia completa e poi devo sospendere la scrittura per metterla a punto, soffrendo per l’impazienza di ricominciare.
Quattro cose vere che si imparano leggendo “L’enigma dei ghiacci”. Ne sono assolutamente rimasta affascinata e quindi, mi chiedevo… cos’altro c’è di vero in questo libro?
Oltre a pesci di specie ignote che vivono sotto i ghiacci o ad alghe tanto toste che la Nasa pensa di portarle su Marte? O all’uso del kite vela per muoversi e alle basi permanenti interne (tre in tutto, una delle quali italo-francese, voglio ricordarlo) e più simili ai sommergibili che agli edifici? È vera ad esempio la storia dei trent’anni di scavo dei russi per raggiungere il lago, o la spedizione nazista nel 1939 e la contro spedizione americana guidata da un veicolo con ruote di tre metri di diametro e un aereo sul dorso. È vero che può capitare di imbattersi in un trattore dei tempi dell’URSS abbandonato nel nulla perché costava troppo recuperarlo o che nessuno ha cancellato i simboli del comunismo nelle basi russe (non per simpatie verso il regime, rare fra gli scienziati, ma per nostalgia di quando la Russia era una grande potenza). È vero che a meno 50° lo sputo si gela in volo e a Vostok in questo momento siamo fra 60 e 70 sotto zero, con un record di meno 89,2°. È vero che i pozzi nel ghiaccio oltre una certa profondità sono sempre riempiti d’idrocarburi per non collassare (sì, è un bel rischio) e che i viaggi in trattore per rifornire le basi sono molto avventurosi, al punto che si viaggia sempre in convoglio (le cosiddette “traverse”) e nessuno manderebbe in giro un solo veicolo come ipotizzo nel libro, tanto meno d’inverno. È anche vero che i laghi simili al Vostok (meno grandi e meno antichi) sono circa 400 in Antartide, molti dei quali collegati fra loro da fiumi subglaciali. In quelli più vicini alla superficie sappiamo con certezza che esistono forme di vita, come batteri ma anche pesci di specie sconosciute: un mondo straordinario, no?
Il libro è uscito già da un mesetto. Ti ritieni soddisfatto del risultato ottenuto? Oppure preferisci non controllare in modo approfondito il riscontro dei lettori?
Non ho riscontri precisi, ma visito spesso i siti che potrebbero ospitare recensioni come Goodreads o IBS o altri. Finora ne ho trovate pochissime, forse è ancora presto. Per questo trovo prezioso il lavoro di blog come il tuo: la dimostrazione che il web non è solo cyberbullismo ma un’immensa area di libero scambio d’idee, uno scambio di cui abbiamo sempre più bisogno e che nessun trattato commerciale internazionale può sostituire, perché si nutre di passione e di curiosità. Perciò: complimenti ancora.
Progetti futuri? Rivedremo ancora qualche personaggio? Oppure pensi di puntare su luoghi ancora inesplorati?
Al momento, mi sembra di essere in transito fra sogno e progetto: con questo libro e grazie a Longanesi (e a molta fortuna) sono andato oltre il primo, ma non sono ancora approdato al secondo. Vediamo come va “L’enigma dei ghiacci” poi parleremo di progetti. 
In fondo ho solo sessant’anni, no?
Maurizio Maggi_Autore
L’enigma dei ghiacci di Maurizio Maggi